Julian Assange, la “spia” venuta dal buio del nostro tempo

Un articolo del mio amico Luigi Mezzacappa sulla storia del giornalista perseguitato per avere denunciato dei crimini di guerra. Una storia che riguarda tutti noi, la nostra libertà. Ma forse non l’abbiamo davvero capito.

di LUIGI MEZZACAPPA

Il 23 ottobre 2010 il quotidiano italiano la Repubblica titolava: “Wikileaks, 400 mila file shock: in Iraq un bagno di sangue”. L’articolo (eccolotrattava delle rivelazioni pubblicate dal sito di Julian Assange: stragi e abusi, oltre 100 mila morti di cui più della metà civili, sei anni di orrori testimoniati da 400 mila tra documenti e filmati sul conflitto iracheno con dettagli dei movimenti e delle operazioni delle truppe statunitensi sul territorio, di ciò che vedevano, facevano e dicevano, nonché degli abusi perpetrati nella prigione di Abu Ghraib. Washington condannò la divulgazione di quei documenti perché mettevano a rischio la vita dei soldati e dei civili americani, ma non disse una sola parola sui rischi causati dai soldati americani alla vita dei civili iracheni. Il Pentagono minimizzò: “Episodi già noti”.

Rappresentanti di associazioni legali britanniche per la vigilanza dei diritti umani assicurarono che i torturatori sarebbero stati individuati e perseguiti e i numerosi casi di violazione dei diritti umani (cioè gli abusi di ogni tipo che costringevano i prigionieri a dire verità già scritte) sarebbero stati oggetto di indagini. La cronaca degli anni successivi ci ha mostrato che non è andata esattamente così.

Migliaia i morti di cui non si sapeva nulla. Informazioni oggi difficili da recuperare perché l’accesso al sito Wikileaks risulta ostacolato da restrizioni tecniche. Tra i documenti, almeno quindicimila “incidenti” la cui responsabilità fu frettolosamente attribuita alle truppe irachene, ma anche torture sui detenuti da parte dei militari di Bagdad ignorate dai comandi Usa. Furono resi pubblici anche settantasettemila documenti sulla guerra in Afghanistan e altri quindicimila furono annunciati. Lo “scoop” sui rapporti riservati dei comandi statunitensi rivelarono punti oscuri che fecero piovere sulla testa di Assange molte critiche, alle quali seguirono un’accusa di stupro in Svezia dai contorni confusi e torbidi, quindi un mandato di arresto poi ritirato.

L’opinione pubblica mondiale fu particolarmente colpita da un video che mostrava l’uccisione di 18 civili da parte di militari statunitensi in una strada di Bagdad, girato dagli stessi aggressori il 12 luglio 2007.  Nel video si sente il militare che chiede l’autorizzazione ad agire accennare alla presenza di armi, ma sul campo non ci sono che le telecamere di due reporter dell’agenzia di stampa britannica Reuters, che verranno uccisi. Insopportabile alla vista, dopo la prima aggressione, la sequenza in cui si vedono gli effetti dei mitra sui tre uomini che soccorrono l’unico iracheno non ancora colpito a morte; uno di loro scende da un veicolo in cui ci sono anche i suoi due bambini, che verranno gravemente feriti.

“Collateral Murder” è il nome con cui viene ricordato il video (eccolo). Centinaia di militari statunitensi lo avevano già visto prima di lui, ma quando lo vede il soldato Bradley Manning, in servizio nel 2010 in Iraq come analista di intelligence, sente di non poter tollerare oltre l’efferatezza e lo invia a Julian Assange, insieme ad altri 700 mila documenti.

Così come Assange, anche Manning ha dovuto subire le angherie di un sistema che punta sistematicamente a fiaccare chi vi si oppone attraverso processi interminabili e spesso pretestuosi e condizioni di detenzione contro i principi della dignità umana. Nel 2013 viene condannato a 35 anni di carcere per i reati connessi alla diffusione di notizie coperte da segreto e al possesso di software non autorizzati. Immediatamente dopo la condanna, fa una dichiarazione pubblica e inizia un percorso di transizione con trattamento ormonale per il cambio di genere, scegliendo di chiamarsi Chelsea.

Bradley Manning

Ma Wikileaks nasce almeno quattro anni prima di quell’ottobre del 2010, quando Julian Assange, allora trentacinquenne, insieme ad altri attivisti e giornalisti fonda il sito che sarebbe presto diventato un archivio documentale online a tutti gli effetti e che avrebbe raccolto informazioni sulle pratiche e sulle attitudini “non esattamente etiche” di governi, personaggi politici, banche e multinazionali. Tra i dossier più significativi pubblicati nel corso della storia del sito ricordiamo quelli sulle condizioni di detenzione dei prigionieri di Guantanamo, sulle operazioni di riciclaggio da parte di banche e multinazionali e, più tardi, sulle migliaia di mail diffuse da Hillary Clinton a ridosso delle elezioni presidenziali del 2016.

In realtà, la storia di Julian Assange, australiano di 51 anni, comincia ancora prima, nel 1987, quando all’età di sedici anni è già in grado di programmare sistemi informatici complessi: figlio di produttori teatrali, inizia a girare il mondo fin da bambino, impara a guardarlo e a riflettere sulle sue contraddizioni, maturando una sensibilità per i temi sociali e politici che lo avrebbe guidato nelle sue future scelte. I suoi problemi con la giustizia iniziano con l’hackeraggio operato in nome del gruppo International Subversives: nel 1991, a vent’anni, viene fermato dalla polizia australiana con l’accusa di essersi infiltrato nel sistema informatico del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti e poi rilasciato su cauzione e per la sua buona condotta.

Di Assange si vuole far passare l’idea che non sia un vero giornalista, e infatti lui stesso si definisce un cypherpunk dalla vena libertaria in virtù della sua convinzione che, attraverso l’uso della tecnologia, si possa cambiare concretamente il mondo reale. Per dovere di cronaca, occorre però registrare l’esistenza di punti di vista differenti, perché c’è chi lo considera un giornalista a pieno titolo: il 16 aprile 2019 gli viene infatti assegnato il premio Daphne Galizia, intitolato alla giornalista maltese assassinata nel 2017; sempre nel 2019 viene insignito del premio Danny Schechter Global Vision per il giornalismo, del Gavin MacFadyen e quindi del premio per la dignità della professione riconosciutogli dalla The Catalan Dignity Commission’s; nel 2020 vince il premio internazionale per il giornalismo dal Journalists Club of Mexico e il premio Stuttgart per la pace; infine, riceve la laurea Honoris Causa dalla facoltà di Giornalismo argentina di La Plata. E’ o non è un giornalista?

Julian Assange

Molti sostengono che Assange sia uno spione. È la linea d’accusa preferita dai suoi detrattori. Coincide con la tattica del discredito, cioè non importa l’oggetto della denuncia, se sia un crimine di guerra o una brutale trasgressione del Diritto Internazionale: Julian Assange ha fatto la spia e per questo va condannato.

Questa storia è lo specchio dei nostri tempi oscuri di mistificazione, in cui la realtà ci viene fatta apparire riflessa e ribaltata, come amava ripetere il grande giornalista e scrittore uruguaiano Eduardo Galeano. Julian Assange è vittima dell’ipocrisia iperbolica, dell’arma più affilata e letale preferita dal sistema mediatico degli Stati Uniti, mirato alla conservazione dell’egemonia economica, politica e culturale a qualsiasi prezzo. I diritti umani e la libertà di informazione valgono a intermittenza e in una sola direzione. Se in direzione “sbagliata”, il potere tende ad occultare anche i crimini più sconcertanti e feroci, e a punire chi li rivela.

Da qualsiasi angolazione la si voglia osservare, la vicenda di Assange non trova spiegazione diversa dalla persecuzione politica. Non può avere spiegazione diversa il ricorso ad accuse come la ripetuta accusa di stupro – ripetutamente smontata – spiccata nel 2010 da un tribunale svedese, la stessa nazione che oggi, sulla guerra in Ucraina, si distingue per posizioni che perseguono gli stessi obiettivi di una bottiglia incendiaria. Non può avere spiegazione diversa l’accanimento inflittogli attraverso le infinite pastoie legali in cui è stato forzatamente invischiato: differisce dalle torture praticate ad Abu Ghraib e a Guantanamo denunciate su Wikileaks solo per gli strumenti, le modalità, i tempi.

Sulla testa di Julian Assange pende l’esito di una sentenza del Tribunale britannico che potrebbe estradarlo negli Stati Uniti, dove è atteso da una condanna a qualche ergastolo ai sensi dell’Espionage Act che, di fatto, equipara il giornalismo a un atto di spionaggio. L’Espionage Act è una legge del 1917 pensata e scritta unicamente per coprire i segreti di Stato. Non contempla l’interesse pubblico: l’unico fine è salvaguardare la reputazione degli Stati Uniti da possibili scandali. Scavalca il diritto Internazionale – un classico degli Stati Uniti – tanto da rendere potenzialmente imputabile chiunque diffonda notizie riservate. Peccato che il signor Julian Assange non sia cittadino americano e non abbia mai pubblicato negli Stati Uniti. Sarebbe la prima volta nella storia dei democratici Stati Uniti che l’Espionage Act verrebbe usata contro un giornalista.

Quella di Assange non è – e non può essere considerata – come la lotta di un uomo solo che combatte per la propria sopravvivenza. La lotta di Julian Assange è – e deve essere – quella di ogni uomo che abbia a cuore i diritti fondamentali e la sopravvivenza dell’umanità. In questo momento, purtroppo, siamo però troppo distratti da un’agenda che ci indica altri percorsi, altre priorità, altri diritti, altre umanità.


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(da Presadiretta – Rai)


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