Intervista impossibile a Michelangelo Buonarroti, del quale a marzo saranno celebrati i 550 anni dalla nascita
Tra un mese, il 6 marzo 2025, saranno 550 anni dalla nascita del genio: Michelangelo Buonarroti. Il borgo aretino in cui vide la luce, Caprese, che dal 1913 in suo onore si chiama Caprese Michelangelo, prepara le celebrazioni. Chi volesse conoscere meglio la storia di questo immenso artista italiano può vedere il documentario il cui link trovate in basso (Michelangelo: il cuore e la pietra). Chi invece desideri conoscerlo direttamente attraverso le sue parole può leggere questa intervista. L’ho ritrovata tra miei vecchi documenti. La scrisse, al quarto anno di liceo, Angelica Attino, una tipa che penso di conoscere. Ha accettato di farmela pubblicare su questo blog. È una intervista impossibile, lo so, ma quelle possibili non sono così interessanti.
di ANGELICA ATTINO
Michelangelo Buonarroti, nato a Caprese il 6 marzo 1475 e morto a Roma il 18 febbraio 1564, è stato uno dei grandi geni del Rinascimento. Scultore, pittore, architetto e poeta, è l’autore di alcune delle più grandi opere nella storia dell’arte. È da tutti sempre stato definito come un uomo introverso, burbero, avaro e permaloso. Ma è finalmente arrivato il momento di sentire Michelangelo raccontato da Michelangelo.
Salve signor Buonarroti, è un onore avere l’opportunità di parlare con voi. Vi ringrazio per aver deciso di dedicarmi il vostro tempo.
«Per carità, il signor Buonarroti è mio padre, io sono solo Michelangelo. Non ho bisogno di un insulso cognome per essere riconosciuto. Spero vivamente di non aver sbagliato a dedicarvi il mio prezioso tempo».
Vi prego di scusarmi, Michelangelo. Per non sprecare ulteriormente il vostro tempo credo sia il momento di iniziare con le domande, se per voi va bene.
«Iniziate pure. E che non siano banali, per piacere».
Certo. Come prima cosa vorrei che mi toglieste una curiosità. È vero ciò che dicono di voi? Che siete un uomo tanto talentuoso e geniale quanto irascibile e quasi intrattabile?
«Assolutamente, e me ne vanto. Le persone non mi piacciono, le ritengo quasi tutte stolte e superficiali. Credo inoltre che in molti ce l’abbiano con me per via del mio talento. lo e pochi altri siamo delle eccezioni».
Deduco, quindi, che non vi piaccia lavorare al fianco di altri artisti.
«Deducete bene. La reputo una limitazione della mia genialità».
E del rapporto con i vostri familiari cosa mi dite?
«Loro non sono delle eccezioni».
Capisco. Ho però sentito dire che Lorenzo de’ Medici è stato come un padre per voi.
«Lui sì che è un’eccezione. Uno degli uomini più intelligenti e colti che abbia mai conosciuto. L’unico della famiglia Medici ad avere avuto il mio rispetto. L’unico a non essere un arrivista con sete di potere. Fu lui per primo a capire che avevo qualcosa di speciale. Fu lui per primo a credere nelle mie capacità. Mi invitò alla sua corte e mi permise di studiare e dedicarmi alla mia arte presso il Giardino di San Marco. Fu lì che mi dedicai più assiduamente alla scultura grazie al maestro Bertoldo di Giovanni che insegnava a me e agli altri giovani artisti in cui il Magnifico aveva riposto la sua fiducia».
A proposito della vostra arte, voi prediligete la pittura o la scultura?
«Due arti nobili, senza dubbio, ma nella scultura c’è quasi qualcosa di divino. La pittura è subordinata alla materia e alle sue caratteristiche, come i colori che cambiano in base all’aria e alla luce. La scultura permette invece di superare questa barriera e non ha limiti».
È vero che voi vedete già nel blocco di marmo la scultura che poi ne verrà fuori?
«Certo. La scultura è già lì, io non faccio altro che liberarla e darle vita».
Quando avete capito che l’arte era la vostra vocazione?
«L’ho sempre saputo. Non a caso i primi ricordi della mia infanzia sono di me che disegno, ma fu a dodici anni, quando entrai come apprendista nella bottega del Ghirlandaio, che cominciai a vederlo come un lavoro».
Vostro padre cosa ne pensava?
«Mio padre disprezzava la mia passione. Pensava che il buon nome della mia famiglia ne avrebbe risentito. Secondo lui sarei dovuto diventare un avvocato per essere degno della nobiltà dei Buonarroti. Non ha mai creduto che l’artista fosse un mestiere. Come ho già detto, la mia famiglia non è un’eccezione. E, come ho già detto, preferirei che le domande non fossero così banali».
Sto facendo del mio meglio, maestro. Tornando alle vostre opere, sono talmente numerose che ce ne deve essere una che preferite, una di cui andate più fiero.
«Istintivamente mi verrebbe da dire il Giudizio Universale. È con quest’opera che ho potuto dimostrare il mio genio ed il mio talento in ogni ambito artistico, nonostante mi abbia causato non pochi problemi alla vista e alla schiena. Ma è la scultura l’arte per eccellenza e l’opera che mi ha dato modo di esprimere questa supremazia è stato il David. Nessuno mai ha realizzato una scultura tanto maestosa».

Non posso che concordare con voi. La vostra rappresentazione di Davide è però diversa da quella di altri artisti rinascimentali quali Donatello, Ghiberti e Verrocchio.
«Certo che è diversa. Se non lo fosse non sarebbe un tale capolavoro, non credete? Io, a differenza loro, mi sono attenuto a ciò che dicono le Sacre Scritture, nelle quali c’è scritto che Davide è un giovane uomo di sedici anni e non un bambino, come loro lo hanno erroneamente rappresentato».
Avete anche deciso di rappresentarlo l’attimo prima che tagli la testa a Golia, a differenza degli altri.
«Perché è quello il momento in cui il corpo raggiunge il massimo della bellezza. I muscoli sono tesi, le vene in evidenza e lo sguardo concentrato. È senza dubbio stato più difficile rappresentarlo in questa posizione, ma a me non è mai piaciuto scegliere la strada più facile».
È vero che il blocco di marmo con cui avete realizzato il David era stato considerato inutilizzabile poiché troppo fragile?
«Sì, è vero. Non mi piace che mi venga detto che qualcosa non si può fare, perché io posso fare tutto».
L’unica scultura a portare la vostra firma è La Pietà vaticana. Si dice che vi siate introdotto nella Basilica di San Pietro di notte per incidere il vostro nome sulla statua perché delle voci attribuivano la sua creazione al milanese Cristoforo Solari. È vero?
«Siete un po’ troppo curiosa. A me gli impiccioni non sono mai piaciuti».
Non era mia intenzione offendervi, maestro. Voi avete introdotto molte innovazioni nella scultura, prima tra queste il non finito. Non siete certo stato il primo artista ad utilizzare la tecnica del non finito, prima di voi ricordiamo i grandi Donatello e Leonardo, ma il vostro non finito è ben diverso dal loro. Un esempio lo troviamo nei Prigioni. Cosa mi dite in proposito?
«Certo che il mio è diverso, vi aspettavate per caso che copiassi qualcun altro?»
No, maestro. Volevo solo sapere qualcosa in più sul vostro non finito così particolare.
«Si può dire che il mio non finito nasca da un’esigenza e non da una semplice scelta stilistica».
Un’esigenza?
«Come ho già detto la scultura è già presente nel blocco di marmo prima che io intervenga su di esso. Ecco, con la tecnica del non finito voglio paragonare la figura che cerca di liberarsi dal marmo all’uomo che cerca di liberarsi dal peccato e dalle passioni terrene per avvicinarsi a Dio».
Si può quindi dire che il non finito non è altro che una rappresentazione del vostro tormento interiore e della vostra lotta contro il peccato.
«Si può dire, sì».
Prima avete nominato il Giudizio Universale. È vero che è stato Donato Bramante a fare il vostro nome a papa Giulio II per affrescare la Cappella Sistina?
«Sì, è stato lui, ma con il solo scopo di umiliarmi. Credeva non fossi abile nella pittura tanto quanto nella scultura ed il suo intento era quello di mettermi in cattiva luce agli occhi del pontefice in favore di Raffaello. Inutile dire quanto miseramente abbia fallito».
Anche la realizzazione delle impalcature è stata un problema, non è vero?
«Il piano di Bramante era sempre stato quello di mettermi i bastoni fra le ruote. La volta si trova ad un’altezza di ventuno metri, quindi realizzare un’impalcatura che partisse da terra sarebbe stato impossibile o comunque non sicuro. Allora Bramante propose delle impalcature direttamente appese al soffitto e, dopo averlo fatto, mi pose il problema della copertura dei buchi che avrebbero lasciato alla fine, credendo di mettermi in difficoltà. Ovviamente ciò non accadde. Spaventarmi non è così facile».
Abbiamo parlato di pittura e scultura ma voi siete stato anche un architetto. Tra i vostri lavori più importanti ricordiamo la Cupola di San Pietro, sebbene non sia stata interamente realizzata da voi ma la sua costruzione fu iniziata proprio da Donato Bramante. Contribuirono, poi, anche Raffaello Sanzio e, in seguito alla sua morte, fu Antonio da Sangallo il Giovane l’architetto incaricato di dirigere i lavori e solo dopo la morte di quest’ultimo siete subentrato voi. Cosa mi dite di quest’opera che il simbolo di Roma e della cristianità nel mondo?
«Antonio da Sangallo non ha fatto altro che danni. Appena il lavoro fu affidato a me ho immediatamente cambiato la pianta a croce latina da lui realizzata per tornare al progetto originario della pianta centrale. Per il resto, la cupola di San Pietro è stata realizzata sulla base del progetto della cupola di Santa Maria del Fiore di Brunelleschi che, nonostante mi costi ammetterlo, ha fatto un buon lavoro».
So che vi siete dedicato anche alla poesia. Perché avete deciso di cimentarvi anche nella scrittura di rime?
«Non mi è mai piaciuto parlare con le persone, perciò ho dovuto trovare metodi alternativi per esprimermi e sfogarmi e la poesia è uno di questi».
Per concludere, vorrei sapere che tipo di rapporto c’era tra voi ed il grande Leonardo.
«Grande, senza dubbio. Nonostante l’astio che ho sempre provato nei suoi confronti, non posso negare il suo talento. E, però, sempre stato evidentemente invidioso di me. Sapete che voleva sabotarmi facendo posizionare il David in un luogo nascosto dove nessuno lo avrebbe visto? Fortunatamente la sua richiesta non fu presa in considerazione ed il mio capolavoro è stato esposto in Piazza della Signoria, dove tutti possono ammirare la sua maestosità».
Maestro, è stato un onore ed un privilegio parlare con voi. Spero di non avervi annoiato o infastidito con le mie domande.
«Annoiato no, infastidito non più di quanto non avessi previsto».
Vi ringrazio ancora una volta per il tempo che avete deciso di dedicarmi. Spero di avere di nuovo l’opportunità di parlare con voi in futuro.
«Adesso non esagerate, ho detto che non mi avete infastidito eccessivamente, non che sia stata una chiacchierata piacevole. Se mai dovessi aver voglia di essere importunato nuovamente, mi rivolgerò sicuramente a voi».


