Buongiorno a tutte e tutti: il fumo delle parole copre il nulla sui diritti delle donne

L’ipocrisia del linguaggio inclusivo sulla bocca dei politici non elimina le reali discriminazioni. E’ più semplice dire che fare

So benissimo che questa opinione non troverà d’accordo buona parte delle donne, ma posso garantirvi che è dalla parte delle donne. Naturalmente non riuscirò a convincerle. Non ci sono riuscito neanche con mia figlia che l’ha letta in anteprima e ha detto solo: “Non concordo”.

di TONIO ATTINO

Ho detto “buongiorno a tutti” entrando in un negozio e mi hanno guardato strano. Probabilmente avrei dovuto dire “buongiorno a tutte a tutti”. Si usa così, ormai.

Il linguaggio inclusivo, entrato da qualche anno nelle nostre vite e praticato in modo particolare dai politici di centrosinistra – come è noto sempre attenti ai diritti e all’uguaglianza – vorrebbe imporre un rigore e una sensibilità contro le discriminazioni. Le parole sono importanti: molto meno dei fatti, ma importanti. Perciò bisogna stare attenti.

Se dico solo “buongiorno” o “buongiorno a tutti” (riferendomi proprio a tutti, intendendo cioè al genere umano), qualcuna (e qualcuno) potrebbe pensare che mi riferisca al solo genere umano maschile. Quindi è opportuno che ci aggiunga “a tutte”, riferendomi cioè anche al genere umano femminile (anteponendo “tutte” a “tutti”, perché prima le donne e poi gli uomini, giusto). Ne consegue evidentemente che il genere umano non è uno soltanto: sono due e noi, anziché unificarli, teniamo a distinguerli linguisticamente nel tentativo di renderli pari. Non bastava considerarne uno soltanto? Punti di vista.

Questa è la dimostrazione che non siamo semplicemente ossessionati da questioni marginali preferendole alla soluzione dei problemi, ma anche vittime dei furbacchioni che, praticando l’ipocrisia come strumento di comunicazione, si mostrano inclusivi, democratici e contro ogni forma di discriminazione. Il primo modo apparente di superarla è appunto il linguaggio: è il modo più semplice, il meno impegnativo, assolutamente gratuito. Lo sforzo è minimo.

Il linguaggio politicamente corretto dei politici politicamente corretti, unito alle dilaganti espressioni precotte di uso quotidiano (no vabbè, non ce la posso fare, questa cosa non ha prezzo, ma anche no. Ci può stare. Sì vabbè, che te lo dico a fare? Ci portiamo avanti con il lavoro e io ci metto la faccia) deturpano l’italiano al punto da fare diventare simpatico chi lo storpia inconsapevolmente: per esempio, la moglie (o il marito) che invita il coniuge (o la coniuge) a mettere l’auto fuori dal garage: “esci la macchina”. Oppure il marito che citofona alla moglie (o la moglie al marito) per dire: “scendi il cane che lo piscio”. Meno male che ci sono gli inconsapevoli.

Il problema vero è che, invece di combattere contro le discriminazioni, il politicamente corretto copre con la solita cortina fumogena i problemi veri: il tasso di occupazione nelle donne è di diciotto punti percentuali inferiore a quello degli uomini (al Sud siamo al 36,9 per cento contro il 62 del Nord e il 60,80 del Centro) benché le donne siano più istruite. Il divario retributivo è notevole: secondo i dati Istat, le donne guadagnano il 5,6 per cento in meno rispetto ai colleghi uomini ma questa differenza sale al 16 per cento tra laureati. I “tutti” insomma guadagnano più delle “tutte” anche se studiano meno. Va benissimo così? No, non va bene, ma evidentemente sì. La verità è che la politica (ce la meritiamo, è nostra) è noiosa, furba, opportunista e inconcludente: vuole prendersi i meriti di quel che non fa, così i generi umani (uomini e donne, tutte e tutti) riescono, nel fare nulla e azzuffandosi sulle virgole, a rendersi ridicoli (ma anche ridicole).


La foto è stata creata con l’intelligenza artificiale

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