“A 15 anni incontrai la leggenda Gigi Riva e lui mi regalò tre autografi. Mi emoziono ancora adesso”

Morto lunedì 22 gennaio a 79 anni, Gigi Riva ha lasciato una scia di ricordi dietro la sua storia di grande calciatore e di uomo controcorrente. Pubblico il bel ricordo di un amico e collega, Claudio Frascella, che da ragazzino lo conobbe in un campo di calcio e riuscì a strappargli una carezza e un autografo, anzi tre.

di CLAUDIO FRASCELLA

Mai visto un metro e ottanta di leggenda prima di allora. Era il 29 agosto del 1973. Gigi Riva arrivò allo stadio “Salinella” con il bus del Cagliari, un martedì. Il giorno dopo avrebbe giocato una gara di Coppa Italia con il Taranto, la squadra della mia città. Tre anni prima aveva vinto lo scudetto.

Ero emozionato. Avrei visto finalmente quell’immenso calciatore del quale mi aveva colpito la vicenda umana. Giovanissimo, orfano di papà e mamma, cresciuto con la sorella Fausta, aveva frequentato dei collegi religiosi dai quali era fuggito più di una volta. «Dovevamo pregare in cambio di un pezzo di pane, quasi un ricatto, ero povero e mi sentivo umiliato: per questo scappavo». Più avanti giocò al pallone. Lasciò il Legnano per trasferirsi a Cagliari: divenne casa sua. Sorridere, sorrideva, certo, ma col contagocce. Era segnato dal dolore. Quel pomeriggio, al “Salinella”, i sorrisi non li contai, ma ne regalò qualcuno anche a me. Di una cosa sono sicuro, perché li custodisco come oggetti preziosi: Gigi mi fece tre autografi. Non uno: tre. Ma questa la racconto dopo.

«Riva! E’ sceso dal bus!». Cominciò così. Sembrava la cronaca del primo piede di Neil Armstrong sulla luna. Ero nello spogliatoio con Lucio Vinci, mio prof di educazione fisica e allenatore della squadra Primavera. «Claudietto, mettiti maglietta, pantaloncini e scarpette, altrimenti con tutta la gente che circola là fuori – e non c’entra una mazza con tutti noi – ci mettono poco ad allontanarti: se vuoi vedere Riva, fai come ti ho detto…».

Un’acrobazia di Gigi Riva

Incontrare Riva era il mio sogno fin da bambino. Collezionavo le figurine Panini e l’uomo che calciava palloni a più di cento orari aveva sempre un’espressione vissuta. «Professo’, sembra abbia più dei suoi ventotto anni, così serio, di poche parole…» dissi. «Riva la storia la scrive con i gol, ma anche fuori dal campo» aggiunse Vinci. Era così. Riva aveva rinunciato a un miliardo di lire, l’ingaggio offerto dalla Juventus. E quando aveva quasi staccato un braccio a un raccattapalle con un tiro secco, da fuori area, era andato a trovarlo in ospedale. Il ragazzino aveva il braccio ingessato. Ne avevano parlato in tv, alla Domenica sportiva. Confesso di avere addirittura invidiato quel raccattapalle. Un fotografo gli aveva scattato una foto in corsia, Riva lo stringeva a sé dopo essersi scusato. Era un grande.

«Professore, vengo al campo B, ma poi torniamo, prima che il Cagliari riparta…». «Facciamo due tiri, poi loro fanno una sgambatura, dobbiamo lasciargli il campo: fidati, anzi, fai una bella cosa, rilassati…». Vedermi passare accanto Riva e temere di non parlargli e non riuscire a farmi fare un autografo era un pericolo che non volevo correre. Era un super eroe, un dio del calcio, Rombo di tuono, scrisse Gianni Brera. Mi vergognavo un po’, una sua coscia era grande quattro volte la mia. Indossava una tutta blu, così aderente che pensavo gli esplodesse addosso da un momento all’altro.

Avevamo lasciato il campo B del “Salinella” al Cagliari. Albertosi, Nené, Niccolai, Tomasini, Gori, Brugnera, tutte facce note, conosciute grazie alle figurine “Panini”. Assisteva alla sgambatura una delegazione del Taranto: Romanzini, Aristei, Paina, Campidonico, il tecnico Gianni Invernizzi. Il quale aveva salutato e abbracciato Beppe Chiappella, allenatore del Cagliari.

«E Riva?», mi dissi, «vuoi vedere che non si allena, è andato via?». E invece, arrivò sul campo di allenamento insieme con Copparoni, portiere di riserva. Lo incrociai, saltellava e calciava uno dei palloni che gli aveva lanciato Masino Lupini, il magazziniere del Taranto. Non volevo nemmeno pensarci. Riva mi sembrava un gigante. Mi fosse venuto addosso, sarebbe stato come scontrarsi con un Tir. «Claudietto, hai un bel tocco, sei veloce, a tratti fai cose da grandi, ma il fisico, quello non ce l’hai: studia, senti a me…». Aveva ragione Vinci. Riva caricava il sinistro e calciava, Copparoni chiedeva di non calciare forte. Invece, ogni tiro una fucilata. Sbam! Non c’era verso di capire come facesse. Accendeva una miccia, non appena il suo sinistro toccava palla, sbam!

Corsi nello spogliatoio, mi cambiai in fretta. Attesi sulla soglia dell’ingresso riservato agli ospiti. Pochi minuti ed ecco Riva. Strano, mi sembrava ancora più alto del metro e ottanta. Nemmeno una goccia di sudore. Prima che entrasse nello spogliatoio, preceduto da Copparoni, mi feci coraggio. «Riva, può mettere un autografo sulla mia agenda? Ho già tutti quelli dei suoi compagni…». Prese fra le dita la Tratto-clip rossa. Un gesto sicuro, ripetuto migliaia di volte. Quell’autografo era più di un affresco firmato da Michelangelo o un quadro di Leonardo. Vedere Riva, a due passi, calciare un pallone? Meglio che visitare il Louvre e ammirare la Gioconda. Azzardai. Tirai fuori “Campionissimi”, pubblicazione con poster 70×100. «Riva, mi scusi, ci provo: può mettere un autografo su questo poster?». Equipaggiato a dovere, tirai fuori un pennarello più robusto. Il bomber che dipingeva gol con sforbiciate e tuffi di testa, non si scompose. Altro gesto sicuro, le dita andavano a memoria: “Riva”!

Nello spogliatoio della Primavera, accanto a quello del Cagliari, eravamo rimasti io e Vinci. Il prof si rivestiva con calma, non nascondeva il piacere di aver visto Riva mentre aprivo il poster sul tavolo dove avevano appena servito il tè. «Claudietto, pensa se un giorno allenassi Riva». «Certo che ci penso: da svenimento…». Infilò i calzettoni e poi le scarpe. «Voglio vederlo meglio da vicino…», disse. Uscirono tutti, Riva per ultimo. Un attimo, pensai: gli chiedo un altro autografo? Mi dirà no, ne ho già due, non importa. Ci andai vicino. Mi sorrise, però. «Un altro autografo? Ma che fai, poi te li rivendi?». Arrossii. Mi aveva fatto più male di una pallonata a cento orari nello stomaco. Trovai il coraggio. «Ha ragione», gli dissi, «la ringrazio lo stesso…». La mia faccia rossa era un peperone. Riva fece due passi, mi avvicinò. Aveva notato la mia emozione. Mi fece il terzo regalo. Anzi, il quarto. Perché per un istante mi strinse a sé. «Dammi il pennarello…». Tirai fuori una cartolina bianco e nero dell’Intrepido, un settimanale di quei tempi. Terzo autografo, la mia tripletta. Non ci credevo. Era successo davvero. 

L’autografo di Riva e Tomasini

Non sapevo come ringraziarlo. Presi una rincorsa e mi lanciai dandogli del tu: «Gigi, hai fatto bene a dire no all’Avvocato e di tenersi il miliardo: le gambe, forse; la testa, al massimo, ma il cuore non si vende». Tutto d’un fiato, sorriso, una mano che mi sfiorò il capo e poi scomparve. Come i titoli di coda di un film. Quel pomeriggio, non volendo, avevo realizzato il capolavoro della mia vita. Quella di un ragazzo di quindici anni al cospetto di una leggenda. Per cinque minuti mi era stata a un passo. «E adesso? Se la racconto in giro, mi crederanno? Ho i tre autografi, certo: devono credermi». Intanto, quel martedì sera non dormii. Accendevo la luce, fissavo la mia agenda, poi la cartolina, aprivo il poster. Riva, Riva, Riva. Mi sembrava di sentire Martellini nella “Partido del siglo”, stadio Azteca, Città del Messico: Italia-Germania 4-3. Gigi anche quella notte ci aveva fatto sognare. Aveva realizzato il terzo gol: finta, palla sul sinistro, diagonale rasoterra e palla in rete. Era lo stesso Riva che avevo visto quel pomeriggio al “Salinella”. Cinquant’anni dopo mi emoziono ancora. 

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