La fabbrica a misura d’uomo. Adriano Olivetti la immaginò dopo la seconda guerra mondiale. Che cos’era il suo modello e che cosa lasciò in chi lavorò nell’azienda di Ivrea. Il racconto di un ex dipendente della Olivetti

La fabbrica a misura d’uomo. Adriano Olivetti la immaginò, realizzandola, alla fine della seconda guerra mondiale, trasformando l’azienda produttrice di macchine per scrivere fondata dal padre nel 1908 in un modello di innovazione e di eccellenza, mettendo al centro del processo produttivo la persona, il suo benessere e la sua crescita culturale. La comunità che Olivetti immaginava era fondata sugli interventi sociali e le iniziative culturali che rendevano realmente l’impresa il motore della crescita. In un tempo (oggi) in cui la precarietà è solidissima e si impongono modelli esattamente contrari che rendono i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, la figura di Adriano Olivetti, morto nel 1960, dovrebbe essere un punto di riferimento e, soprattutto, essere conosciuta dai giovani. Il mio amico Luigi Mezzacappa lavorò in Olivetti negli anni Settanta del Novecento, quando ormai Adriano Olivetti non c’era più. Ma qui racconta un’esperienza che risentiva ancora delle sua meravigliosa idea.
di LUIGI MEZZACAPPA
“For biz bidirescional bas draiver! For biz bidirescional bas draiver! For biz bidirescional bas draiver!”. Un tipo un po’ singolare ripeteva le stesse parole con insistenza e non dava l’impressione di voler smettere. Sdraiato sulla poltroncina, la testa appoggiata allo schienale, si era fatto scivolare sotto la scrivania. Le sue gambe sbucavano oltre. Con le braccia distese verso l’alto reggeva un libriccino e leggeva ad alta voce, quasi urlando: “For biz bidirescional bas draiver!”.
Nello stanzone lungo e stretto, oltre a lui e a quella scrivania sistemata in fondo come una cattedra in un’aula scolastica, c’erano altre sei persone e altre sei scrivanie. Erano disposte su due file, però non come a scuola, ma longitudinalmente alla stanza. In quattro erano seduti intorno a una delle scrivanie e giocavano a carte, gli altri due stavano per conto loro e leggevano il giornale. A un certo punto, uno dei telefoni poggiato sulle scrivanie iniziò a squillare. Al primo trillo, tutti (quasi tutti, faceva eccezione il tipo della frase-tormentone) gridarono in coro: “Uno!”. Al secondo, di nuovo tutti insieme: “Due!”. E così via, fino al tredicesimo trillo, quando tutti gridarono “Tredici!”. Il telefono smise di squillare e uno degli urlatori prese ad esultare come se avesse vinto qualcosa.
Erano più o meno le 13 del 22 novembre 1977 e mi trovavo in uno degli Uffici Progetti di San Lorenzo, a Ivrea. Appena un paio di ore prima avevo firmato la lettera di assunzione nell’Ufficio della responsabile del personale, nella palazzina di via Jervis. Matricola 83380. Ero entrato alla Olivetti. La dirigente mi affidò all’ingegner Stefano Visentini che mi accompagnò in visita alle principali strutture aziendali: “Per prendere confidenza”, mi disse. Avevo diciannove anni appena compiuti, da non tanto tempo non portavo più i pantaloni corti, ma non ero completamente tonto: sapevo che Bruno Visentini era il presidente dell’Olivetti e sapevo anche che aveva alternato la funzione con quella di ministro delle Finanze. Questo duplice e importante incarico, seppur non contemporaneo, mi aveva incuriosito. Eppure quando l’ingegner Stefano Visentini mi porse la mano presentandosi, nella mia testolina non scattò nessuna associazione di idee. Non pensai fosse il figlio dell’ex ministro.
Visentini mi mostrò il Centro Studi di San Lorenzo dove mi fece incontrare i progettisti che sarebbero stati i referenti del mio lavoro; poi Palazzo Uffici, dove si trovavano gli “enti centrali”; quindi lo stabilimento di Scarmagno e, infine, quello di San Bernardo, di cui lui era direttore tecnico e al quale io fui assegnato per lavorare nell’Ufficio Ingegneria di Produzione, l’unità che aveva il compito di rendere riproducibili su scala industriale i prodotti che esistevano solo sulla carta e in forma di prototipo. Alla prima tappa, a San Lorenzo, fu lui ad aprirmi la porta dell’Ufficio Progetti e a pregarmi: “Dopo di lei”, regalandomi la possibilità di assistere come uno spettatore in prima fila a quello spettacolo descritto all’inizio. Preso in contropiede da quella situazione che non mi aspettavo, rimasi un attimo interdetto. Mi voltai per incrociare lo sguardo dell’ingegnere il quale, con un sorriso carico di comprensione, mi sussurrò: “Sono in pausa pranzo…”.
I sette occupanti dell’Ufficio Progetti non si scomposero, o meglio, non si ricomposero. Qualcuno accennò un saluto con un piccolo movimento della mano. Anche per questo, nella mia testa non scattò nulla: se fossero balzati tutti sull’attenti, forse avrei capito chi era effettivamente Stefano Visentini. Se il capo dell’Ufficio Progetti, laggiù in fondo, avesse notato il nostro ingresso, forse si sarebbe “dato un contegno”, e forse anche i suoi colleghi si sarebbero ricomposti, ma era troppo occupato a recitare ossessivamente: “For biz bidirescional bas draiver”. L’avevo scambiato per una formula sciamanica, ma non lo era. Qualche giorno più tardi capii che si trattava della definizione in inglese del primo microprocessore integrato della storia, l’Intel 4040: “Four bits bidirectional bus driver”, recitata con una marcata pronuncia anglo-eporediese.
L’atmosfera vagamente surreale con il passare dei minuti si dissolse: il capufficio intuì finalmente la nostra presenza, fece riemergere la sua testa che da lontano mi era sembrata una boa che galleggiava sul piano della scrivania, recuperò la posizione seduta, riconobbe l’ingegner Visentini, si alzò e ci venne incontro: “Buongiorno ingegnere, ci scusi, siamo in pausa pranzo, io ne ho approfittato per studiare il 4040 che proprio non mi vuole entrare in testa, e i colleghi giocavano chi a carte e chi al toto-squillo”. Così fu proprio lui a spiegarci il mistero della conta dei trilli: era stato lui a dire ai colleghi di non rispondere al telefono durante la pausa, altrimenti la pausa cessa di esserlo. E i colleghi si erano inventati questa cosa del toto-squillo: vince chi indovina il numero degli squilli prima che il chiamante si stufi di aspettare che qualcuno risponda. L’ingegner Visentini sembrò divertito. Io ero allibito: avevo appena scoperto che non c’era differenza tra la scuola e il lavoro…
E invece sì, la differenza c’era, e me ne accorsi la settimana successiva quando cominciò il corso per i neo-assunti: 8 ore al giorno per 10 mesi, dal dicembre 1977 all’ottobre del 1978, un mese di ferie, a luglio. Teoria, architettura e applicazioni delle macchine calcolatrici, programmazione in Basic, Pascal e soprattutto in Assembler, il linguaggio di base dei microprocessori. Se ci fossero state anche Matematica e Fisica, il corso sarebbe stato perfettamente sovrapponibile a quello del primo anno della Facoltà di Scienze dell’Informazione (aperta a Torino solo pochi anni prima) che frequentai per tre anni, dal ‘77 al ‘79. Mi dispiacque molto interrompere gli studi, ma ricordo che per autoassolvermi mi diedi due “giustificazioni eccellenti”: la stanchezza e… l’Olivetti. Fare il pendolare, alzarmi alle cinque del mattino e tornare a casa dopo mezzanotte dopo le lezioni serali, studiare sul pullman e poi al sabato e alla domenica esaurirono le mie energie. Senza contare che, all’epoca, l’aula in cui seguivo le lezioni era praticamente una baracca installata nel cortile della Facoltà di Fisica, e faceva letteralmente acqua: quando pioveva assistevamo alle lezioni con gli ombrelli aperti e i piedi a bagno in una pozzanghera unica di tre centimetri di profondità. E poi… e poi sì, fu “colpa” dell’Olivetti se decisi di non continuare: all’Università utilizzavo strumenti di lavoro vecchissimi, mentre in ufficio ero avanti anni luce. Nei giorni di “pratica” in cui venivamo avviati al lavoro, io mi appassionai subito a quello che sarebbe stato il mio: mi piaceva, mi divertiva, mi bastava, non avevo nessuna voglia di andare a “perdere tempo” all’Università.
Se non ricordo male, lo stipendio iniziale era di 220 mila lire. Quarantamila se ne andavano per il pullman dei pendolari e, al netto di quanto decisi di versare in famiglia come “contributo spese”, mi restavano un po’ più di 100 mila lire. Chiaro che il costo che avrei dovuto sostenere per acquistare il primo testo universitario mi impressionò: 170 mila lire. Il mio disappunto fu così forte che il docente Olivetti dovette sentirlo mentre lo raccontavo ai miei colleghi di corso: “Certo che dispiace!” – intervenne – “ma tu vai in biblioteca, in via Jervis, vai oggi stesso, durante la pausa, non ti preoccupare se fai tardi, te l’ho detto io”. Feci così, e quando rientrai, il docente mi chiese: “Dov’è ‘sto libro, l’hai nascosto?”. “È andata male” – gli risposi – “mi han detto che ne hanno due copie ma sono già fuori, però quando ho detto: ‘allora mi toccherà comprarlo’, la signorina mi ha detto di no, di aspettare che mi chiamino perché nei prossimi giorni ne comprano un’altra copia che è già prenotata a mio nome, chissà se è vero”. La signorina mi fece chiamare la mattina dopo.
Quando terminò il corso e mi integrai definitivamente all’ufficio a cui ero stato assegnato, capii che non avrei smesso di studiare: ogni novità che, allora come oggi, si affacciava sul nascente mercato tecnologicizzato, aveva una sua monografia nello scaffale dei libri dell’ufficio, al fianco di un’infinità di riviste tecniche. Alla faccia della cresta dell’onda tecnologica che pensavo avrei cavalcato all’Università. “Nel campo tecnico la lingua ufficiale è l’inglese, il tuo a che livello è?”, mi chiese il mio capo mentre sfogliavo una di quelle riviste. “Scolastico”, gli risposi, “ma questo è inglese tecnico e se si conoscono i termini che abbiamo imparato al corso non è difficile da capire”. Mi guardò e mi disse: “Va bene, ma voglio comunque chiedere al Personale di farti fare un corso, vado a parlarne proprio adesso”. Tornò di lì a poco: “Sono d’accordo, però fuori orario di lavoro, se vuoi. Mi han detto di chiederti se preferisci serale o pre-serale, a Ivrea oppure a Torino, così quando finisci sei già a casa”. Scelsi preserale a Torino, e cominciai la settimana dopo. Due volte alla settimana per sei mesi, che si sovrapposero alle lezioni in Facoltà. Così si capisce meglio perché fu colpa dell’Olivetti se smisi di frequentarla?
Durante tutto il periodo dell’Università, per tornare a Torino alla fine della giornata di lavoro non presi il pullman dei pendolari, ma la “navetta” messa a disposizione dall’azienda per i dipendenti che studiavano. Gratuita. Per me era più comoda perché faceva il giro delle Facoltà e mi scaricava proprio davanti alla “baracca”. La sera faceva il giro al contrario per raccogliere gli eporediesi e riportarli a casa, mentre io che abitavo a Torino tornavo a casa in tram. Quel capo che si preoccupò di migliorare il mio inglese, è lo stesso che mi fece una gigantesca iniezione di fiducia, per il lavoro e per la vita. Se la ricordo ancora, può voler dire solo due cose: o fu una dose da cavallo, oppure da quella volta non ho mai più visto niente di simile. Oppure tutt’e due.
Erano più o meno sei mesi che lavoravo in reparto e Giorgio – così si chiamava – mi disse che voleva darmi fiducia e che mi avrebbe affidato un lavoro molto complesso.
Purtroppo temetti di tradirla, quella fiducia, perché nella realizzazione del prototipo di una macchina di collaudo collegai erroneamente alla tensione un dispositivo che costava 500 mila lire, e lo bruciai. Con la coda tra le gambe, gli dissi che avevo combinato un guaio. Avevo vent’anni, ma la mia storia era tale da capire il valore dei soldi, e tremavo come una foglia per il senso di colpa, ero addirittura disposto a dirgli che sarei stato pronto a rifondere il danno con il mio stipendio, temetti il licenziamento. Non disse nulla, cercò di capire se fosse possibile rimediare all’incidente, alzò lo sguardo e mi disse: “Sbaglia chi fa. Chi non fa, non sbaglia mai. Ho conosciuto tanti ragazzi che non hanno voglia di fare niente e quelli non fanno questi errori. Poi ci sono anche ragazzi volenterosi, che però hanno paura della propria ombra e non fanno nulla senza chiedermi cosa devono fare. Tu c’hai provato e hai sbagliato, sicuramente la prossima volta farai più attenzione”. Se ricordo bene, credo che in quel momento mi mancò il fiato, non potevo credere a quello che avevo appena sentito.
Un giorno, nella bacheca che stava al fianco della “rastrelliera” delle cartoline-presenza, vidi un avviso dal titolo “Servizi sanitari”. Riportava gli orari di presenza nell’ambulatorio di fabbrica di una serie di medici specialistici. In quel periodo avevo un paio di piccole carie di cui stavo rinviando la cura perché non avevo ancora imparato a organizzare il mio tempo, diviso tra lavoro, università e inglese, e non avevo ancora trovato, a Torino, un dentista con orari compatibili con i miei, così prenotai un appuntamento con il dentista di fabbrica. Nel giro di qualche seduta risolsi il problema, in orario di lavoro, e quando chiesi alla segretaria dell’ambulatorio se la parcella sarebbe stata addebitata sullo stipendio, lei mi rispose che si trattava di un servizio aziendale.
Le mense aziendali erano aperte ai figli dei dipendenti che, quando uscivano da scuola, potevano incontrare i propri genitori a tavola. Il costo era naturalmente calmierato. Se non ricordo male, la cosa funzionava per ovvi motivi per i ragazzi dalla prima media all’ultimo anno del liceo. Per un ragazzo di diciannove anni come me, l’aria che si respirava in Olivetti ancora a quel tempo era una medicina, direi un antidoto contro le avversità e le trappole del futuro che ci veniva incontro. In cinque anni, per cinque volte vidi in busta paga cinque piccoli aumenti, a riconoscimento dei miei sforzi per imparare e fare bene. Furono piccoli, è vero, ma arrivarono sempre un attimo prima che sentissi di meritarli. A volte penso che l’Olivetti, paradossalmente, per me ha avuto anche un’altra “colpa”: di illudermi sull’onestà e sulla trasparenza del mondo del lavoro. Certo, erano altri tempi, e nei miei ricordi c’è sicuramente una componente di nostalgia che migliora tutto, anche le cose più brutte, ma resta il fatto che l’Olivetti, ancora nel 1982, quando la lasciai, era ancora un’altra cosa.
Quella Olivetti era ancora un’azienda in cui il figlio del presidente che mi accompagnò in visita a Palazzo Uffici, alla mia domanda di ragazzone affascinato da quell’universo tutto nuovo: “Ingegnere, ma quante persone lavorano in questo bellissimo palazzo?”, rispose: “Il cinquanta per cento”, provocando il mio sconcerto perché non capii cosa volesse dire, e lo capii solo quando ci ripensai la sera a casa, provando vergogna e imbarazzo per non aver sorriso al momento giusto. Mi diedi una piccola attenuante: che cavolo, sul lavoro non si scherza! Ma quella Olivetti mi insegnò anche questo: sul lavoro si può e si deve scherzare, eccome, se si è persone serie. Quella Olivetti era ancora un’azienda in cui il tuo capo, che ti ha mandato a fare il corso di inglese, vedendo che la pausa pranzo è finita e tu sei ancora lì a fare i compiti che devi portare alla lezione della sera, non ti dice nulla, ma ti guarda e sbuffa. E allora tu, che te ne sei accorto, gli chiedi: “Giorgio, scusa, mi manca solo più una frase, mi aiuti, così finisco prima? Devo usare la forma negata del verbo alla terza persona, doesn’t…”. E lui che fa? Ti guarda, ci pensa un po’ e ti dice: “My boss doesn’t want me to do english homework during working hours”, il mio capo non vuole che io faccia i compiti di inglese durante l’orario di lavoro.

Sono entrato in Olivetti in un’epoca molto posteriore a quella di Adriano, esattamente 17 anni dopo la sua scomparsa. L’Olivetti di cui posso parlare, com’è evidente, non era più la sua, ma quella di Visentini, che in accordo con Cuccia e con i capitali di Mediobanca, Fiat, Pirelli e IMI, si sarebbe apprestato a trasformarla nell’Olivetti dei Peccei (uomo Fiat) e dei Beltrami (che aveva diretto la divisione elettronica e nel ‘64 la cedette ai nordamericani della General Electric), e poi dei De Benedetti, dei Cassoni, dei Passera, dei Caio e dei Colaninno, che nel 1997 chiuse definitivamente il settore informatico trasformando e stravolgendo ciò che restava della gloriosa Olivetti in un’azienda di telecomunicazioni e in una holding finanziaria, esattamente ciò che Adriano aborriva. Fino a quando anche il nome scomparve, completamente fuso e confuso nella Telecom di Tronchetti Provera.
Non era più l’Olivetti che la famiglia aveva salvato e protetto dal delirio bellico e dalla furia dei nazisti, e che sicuramente avrebbe fatto di tutto per salvare anche da quell’altra furia, quella che si abbatté su di essa subito dopo la fine della Seconda Guerra, quella dell’ambizione egemonica dell’imperialismo statunitense, terrorizzato dal potenziale innovativo sul piano tecnologico e soprattutto sociale che l’Olivetti di Adriano stava esprimendo e dimostrando agli occhi del mondo.
Sapevo poco dell’Olivetti, figuriamoci: terminato l’Istituto Tecnico, inviai qualcosa come 60 curricula, ma non all’Olivetti perché “Ivrea è scomoda”. Fu l’Olivetti a cercare me. Sapevo solo ciò che era la vulgata dell’epoca: “È un’azienda d’avanguardia, non paga tantissimo, ma è attenta ai bisogni della gente, lì si sta bene”. L’ho potuto constatare personalmente, anche se erano solo le ultime reminiscenze. Della storia di Camillo e Adriano sapevo anche meno. A diciannove anni tutto scorre, e l’esperienza in Olivetti deve essermi sembrata una cosa naturale, ma a ripensarci adesso trasalisco all’idea di essere stato dentro quella grande storia con tutte le scarpe, ricevendone un imprinting professionale e di vita che mi hanno dato slancio e coraggio per resistere a situazioni di lavoro ben differenti. Ma adesso, adesso capisco che considerare l’esperienza dell’Olivetti un semplice ricordo sarebbe un crimine: per me, come ex-dipendente, ma più ancora per tutti noi, per la nostra memoria collettiva, per la nostra storia di Paese.
In un paese che si vuole credere libero, la storia degli Olivetti e dell’Olivetti, della fabbrica umana pensata da Adriano Olivetti – oggi, con illustri “visionari” che rispondono ai nomi di Bezos o Musk – dovrebbe recuperare la ribalta. Dovrebbe costituire una proposta di confronto più che mai attuale, e non una idea del passato che ha lasciato solo un bel ricordo, o al massimo la traccia di una buona imprenditorialità. Sarebbe una bella opportunità per tornare a ragionare e a confrontarsi. Confrontarsi con l’esperienza olivettiana sarebbe una straordinaria ripartenza.
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