L’addio a Giancarlo Fucci, che amava la carta stampata anche più dei giornalisti
Se n’è andato Giancarlo, cioè Giancarlo Fucci, edicolante figlio di edicolante, innamorato dei giornali più di chiunque, più dei giornalisti. Il 24 agosto aveva compiuto 74 anni. A Taranto era una celebrità, almeno finché non chiuse bottega, una ventina di anni addietro. Un po’ più a sinistra di Karl Marx ed Ernesto Guevara messi insieme, Giancarlo rifiutava di vendere, e anche di maneggiare, giornali di destra. Così quando entravi nella sua edicola nel centro di Taranto, godendo per qualche istante di un curioso anonimato prima che lui, parecchio miope, sovrapponesse utilmente la tua sagoma alla tua voce, potevi chiedergli scherzosamente: “Avrebbe Il Borghese?” oppure”mi dà il Secolo d’Italia?” per guadagnarti dopo un istante un “vaffanculo”, uno “stronzo”, spesso un più completo “vaffanculo, stronzo”. Nel 2000, quando feci stampare un librettino con alcuni miei articoli, che regalai agli amici nel giorno del mio compleanno, scrissi una introduzione in cui citai Giancarlo e i tormenti dell’edicolante militante. Allora i giornali cartacei non erano così in crisi come oggi, ma avevano deciso di inventarsi mille gadget ed omaggi assortiti per tenere su le vendite. Giancarlo ne soffriva. Pubblico di seguito l’introduzione di quel librettino, un’edizione del tutto privata, titolo “Il volo di Dixie”: un omaggio al migliore, al più romantico edicolante che io abbia conosciuto.
di TONIO ATTINO
«Signor Franco, mi dà un etto di mortadella? Anzi me ne dia due etti, poi la butto».
Un amico caporedattore della “Stampa” mi ha mandato una e-mail per salutarmi e mi ha chiesto «beh, come va?». Gli ho risposto via e-mail che va benone, come sempre, ricordandogli un passo di “Quelli che…” , un bel libro del grande Beppe Viola: «Il pugile tornò all’angolo stravolto, insanguinato, sull’orlo del k.o. “Come vado?” chiese al suo manager. “Se l’ammazzi fai pari” rispose l’altro».
«Io, invece – ho detto al mio amico Luca – se l’ammazzo perdo, ai punti» e lui c’è rimasto male perché pensava di avermi trovato un po giù di corda. Invece ero in gran forma, come sempre.
Anche se all’anagrafe fui registrato con due giorni di ritardo (l’11, perché io e mamma non stavamo benissimo e non era il caso di denunciare la nascita prima di capire se riuscivo a respirare a intervalli regolari), sono nato il 9 agosto 1960, in anticipo di qualche giorno su Napoleone Bonaparte, ma due secoli dopo: lui nacque il 15 agosto 1769. Il 9 agosto 2000 fanno 40 anni esatti per me, il 15 sarebbero 231 per Napoleone.
Ora, non sono il solito pazzo, spero. Ma noi due, io e Nap, abbiamo qualcosa in comune: il segno zodiacale (leone: carattere volitivo, tenace, leale, spesso spigoloso e con tendenza all’impulsività), la statura imperiale e una certa inclinazione al combattimento.
Sebbene la mia popolarità non sia paragonabile alla sua, in qualche modo ho ripercorso silenziosamente una parte della storia napoleonica, cominciando però dalla fine: nel senso che nella vita mi sono fatta allegramente tutta Waterloo, e adesso, se mi viene risparmiata Sant’ Elena, dovrebbe – lo spero vivamente – cominciare il percorso a ritroso verso la vittoria, e mi toccherebbero Friedland, Jena, Austerlitz, Marengo. Non vedo l’ora.
Ognuno ha avuto un po’ di gloria, e anch’io, ma, insomma, sono cose che passano. Novanta volte su cento i giornalisti godono di una popolarità effimera, la firma o il volto in tv. Il giorno dopo l’articolo non esiste più, e neanche la firma, e il volto. Cosi quando una casalinga con gli ingranaggi non tutti perfettamente oleati entra in salumeria e chiede: «Signor Franco, mi dà un etto di mortadella? Anzi me ne dia due etti, poi la butto», capisci che sta parlando anche di te, della mortadella che produci e ogni tanto finisce nella spazzatura. Un giornale non è così diverso dalla mortadella. Entrambi vanno consumati freschi, perché invecchiano prematuramente. Perciò abbondiamo: un giornale, due inserti, un gadget, un paio di etti di magazine, tanto poi lo buttano.
Quando gli Stati Uniti invasero il Vietnam non ero ancora nato e, quando i vietcong con i loro assalti li costrinsero alla resa mettendo fine alla guerra, me ne accorsi appena. Una secchiata d’acqua dal terzo piano mi fece capire che stavo diventando grande. A 15 anni non si gioca a pallone per strada, di pomeriggio, quando i liberi cittadini fanno la siesta.
Qualcuno all’oratorio portava sulla maglia il volto di Ernesto Che Guevara non sapendo chi fosse. Una brava persona, sicuramente. Fu ucciso nel 1967, avevo sette anni. Nel ’68 ne avevo otto, ovvio: troppo pochi per essere un sessantottino e condividere la rivolta studentesca. Facevo la terza elementare. Non mi accorsi che l’Italia viveva il boom economico come, anni prima, mi erano sfuggiti per un pelo l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy a Dallas (1963), la guerra dei sei giorni (1967), e perfino i Beatles. Li scoprii con l’età della ragione, e mi parve che John Lennon l’avesse contemporaneamente perduta sposando Yoko Ono. Però “Imagine” non morirà mai.
La mia generazione, troppo piccola per il ‘68 e troppo grande per il movimento della Pantera, s’è perduta tutto, perfino i bordelli: la legge Merlin che li abolì fu promulgata nel ’58, e io nacqui due anni dopo. La storia mi ha sfiorato. Io, modestamente, non c’ero.
Una media di un articolo al giorno è poca cosa. Quasi nessun giornalista scrive un articolo al giorno. Ma se calcolassi di avere scritto la media di un articolo al giorno negli ultimi 20 anni sarei ora, sottratte le ferie, a quota seimila, all’ingrosso. Seimila articoli. Qualunque soldato spari seimila proiettili diventa un eroe o viene fucilato; qualunque rapinatore compia seimila rapine va in galera per 50 anni, o alle Bahamas. Un giornalista lascerà negli archivi solo la traccia labile della cronaca ormai immangiabile come mortadella scaduta.
Se penso alla mortadella mi viene in mente un caposervizio della “Stampa”. Quando gli segnalavo telefonicamente un fatto di cronaca, uno stupro, un conflitto a fuoco tra banditi o una spettacolare retata della polizia mettendoci la passione del piazzista che deve vendere un prodotto, lui ascoltava dicendo nevroticamente «uhm», a scatti: se non si eccitava istantaneamente con un «voglio il pezzo tra 20 minuti, però sbrigati, siamo in chiusura», che era il segno che la notizia funzionava, ascoltava il racconto distrattamente per concludere: «Allora, così stanno i fatti? Va bene, non facciamo niente». «Come niente?» chiedevo. «Mah, non credo che meriti». Io insistevo, convinto che il fatto invece meritasse. E lui ascoltava in silenzio, aggiungeva qualche altro «uhm», sembrava convincersene, ammiccava con un «ah sì sì» e poi concedeva: «Va be’, facciamo cinquanta righe». E lo diceva per farmi felice. Perché io scrivevo cinquanta righe e poi non ne usciva neppure una. La sua tecnica era simile a quella della signora che, entrando nella bottega del signor Franco, ordinava «un etto di mortadella, anzi due, poi la butto». Il capo trattava i miei articoli come mortadella.
Perciò, capito l’insegnamento, quando lo chiamavo per segnalargli un delitto crudele, due fidanzati uccisi dall’ ex ragazzo di lei, per gelosia, cambiavo l’approccio: «Che cosa ne dici, la prendiamo in considerazione, secondo te merita, oppure la archiviamo alla voce imprevisti dell’amore?». Lui diceva: «Fai sessanta righe». Ne uscivano 20. Avevo già fatto un passo avanti.
Alle forbici di questi capi nevrotici, amici e aguzzini, sono scampati gli articoli che leggerete in queste pagine. Né i migliori né i peggiori: semplicemente alcuni, dedicati – salvo un’eccezione – a personaggi minori, quelli che danno sapore al giornale e ne ricevono in cambio la gloria breve di una passerella prima che la cronaca del giorno evapori, sostituita da quella del giorno dopo. Articoli presi un po’ a caso, niente di impegnativo. Non è il caso di impegnarsi.
Ciascuno di noi a un certo punto pensa di avere sbagliato. Il medico pensa che era meglio fare l’avvocato, l’avvocato il danzatore del ventre, e il professore che era preferibile alla cattedra un ristorante in un’isola dell’Egeo, perché non c’è niente di meglio, a sera, che sedersi su uno scoglio e guardare il mare. Ma dopotutto il nostro è il più bel mestiere del mondo, davvero ineguagliabile finché gli editori non si sono messi in testa che si possono fare i giornali senza i giornalisti, ché tanto la mortadella sanno tagliarla tutti, soprattutto i colleghi con la mano tesa e le tasche larghe, così moderni e bilingue che sanno dire perfettamente sì e yes, per non sbagliare mai. D’altro canto, basta abbondare: un etto in più, tanto poi la buttano.
Anche Giancarlo, un edicolante di talento, a un tratto della vita ha capito di avere sbagliato. Allibito dalla rivoluzione della carta stampata travolta dai gadget, improvvisava dei memorabili duetti con le clienti alla ricerca del regalino. «Scusi, signor Giancarlo, è arrivato il giornale con il profumo?». «Quale giornale, signora?». «Quello con il profumo». «Quale profumo? Oggi ne ho dieci». La signora scrutava la rivista che gradiva, pagava, la liberava dal cellophane e, uscendo, la gettava nel cestino dei rifiuti dopo avere preso il profumo. Giancarlo soffriva vedendo il giornale-mortadella finire tra i rifiuti, era conscio del suo declino. Comunista, marxista e qualche altro «ista» che adesso mi sfugge, aveva perduto tutte le battaglie della sua vita, e ora perdeva anche questa, amaramente: «Io volevo vendere i giornali e invece vendo i profumi. Tanto valeva aprire direttamente una profumeria».
In fondo, una profumeria non è poi così male, se c’è uno scoglio vicino.
