di TONIO ATTINO
Taranto non si tocca. Resterà magnificamente mostruosa con le sue fabbriche e le sue ciminiere, i suoi altiforni e le sue cisterne petrolifere, cioè come la ridisegnò 55 anni fa una classe politica ormai scomparsa, ma con un autorevole superstite ancora sulla scena: Giorgio Napolitano.
Quella grande rivoluzione trasformò una città marinara e agricola in una città industriale grazie a un centro siderurgico di Stato esteso su 15 chilometri quadrati (l’Italsider, oggi Ilva), accanto al quale furono collocati una raffineria (la Shell, oggi Eni) e il cementificio Cementir. Ecco, questa era la Taranto di ieri, capitale industriale del Mezzogiorno, questa sarà la Taranto del domani. Sabato, durante la sua visita prima dell’inaugurazione della Fiera del Levante, il primo ministro Matteo Renzi ha ricordato che questa resta una città industriale ed è una «priorità nazionale », rispondendo sostanzialmente agli ambientalisti e a quei cittadini desiderosi di qualcosa di diverso nel loro futuro. L’Ilva ha una capacità produttiva di 10 milioni di tonnellate di acciaio l’anno, un terzo della produzione italiana. Come si può immaginare l’Italia senza la Taranto dell’acciaio? Non si può, appunto.
È curioso, ma Renzi, impegnato a progettare un Paese moderno, a riformare e rottamare, ha confermato per Taranto un modello industriale concepito negli anni Cinquanta promuovendo implicitamente le scelte di una classe politica di oltre mezzo secolo fa e l’azione, tra gli altri, di Emilio Colombo. Era ministro dell’industria nel giorno in cui – il 20 giugno 1959 – il governo decise di assegnare il quarto centro siderurgico di Stato a Taranto. Colombo non potrà dirci che cosa ne pensa: è scomparso nel 2013, aveva 93 anni. Giorgio Napolitano, presidente della Repubblica, ce lo ha detto il 12 ottobre 2007: «Mi diedi molto da fare, e partecipai a delle battaglie, perché si costruisse il grande impianto siderurgico a Taranto. Abbiamo imparato, dopo, che bisognava essere più prudenti, e che bisognava mettere nel conto anche tutte le conseguenze negative della industrializzazione. Ma si è dovuti passare per quell’esperienza, per capirlo ». Volessimo parlare delle «conseguenze negative», dovremmo ricordare non solo l’inchiesta della magistratura per disastro ambientale, ma l’allarme lanciato già nel 1996 dall’organizzazione mondiale della sanità sull’eccesso di tumori a Taranto, dichiarata nel 1998 Sin (sito di interesse nazionale, in quanto area contaminata), e gli attuali dati dell’istituto superiore di sanità secondo cui si ammalano a Taranto il 21 per cento in più di bambini. Tutto – dice il governo -sarà risolto con il piano ambientale.
Il risanamento prevede per esempio di neutralizzare la pericolosità dei parchi minerali, una settantina di ettari (grandi quanto il quartiere Tamburi accanto a cui furono costruiti), grazie a un «coperchio» che ne eviterà la dispersione delle polveri: sarà lungo 700 metri, largo 264 e alto 80 metri. Taranto avrà il più grande centro siderurgico d’Europa ecocompatibile grazie anche ai «mega coperchi» e poi consegnerà le chiavi al nuovo acquirente (indiano, si suppone). Lo Stato metterà così per la seconda volta la sua fabbrica strategica nelle mani di un privato, delegandogli le scelte di mercato. Lo fece nel 1995 consegnandola a Riva, poi finito con la famiglia sotto inchiesta e con gli impianti sotto sequestro. Nel frattempo il governo darà il via libera a Tempa Rossa, il progetto che porterà il petrolio della Basilicata a Taranto con un oleodotto lungo quasi 140 chilometri, ma non si può escludere che Eni – l’ho ha già minacciato – possa chiudere la raffineria, perché raffinare il greggio in Italia è troppo costoso.
La politica industriale italiana non contempla niente di diverso dal secolo scorso e, 55 anni dopo Emilio Colombo, le riforme immobili sembrano semplicemente spostare l’ora al timer collegato al tritolo su cui siamo seduti.
da Corriere del Mezzogiorno-Corriere della Sera, 16 settembre 2014