“Sono cristiano, in Turchia mi torturano”. L’appello al Papa del dirottatore che finse d’essere un kamikaze

TARANTO. «Fra tre mesi sarò li­bero. Se torno in Turchia mi tortu­rano perché sono cristiano. Salva­temi. In un carcere militare ho già su­bito violenze. Mi hanno aizzato con­tro cani feroci, picchiato, strappato le unghie. Sono fuggito, ho disertato. Ma non voglio più vivere in una na­zione musulmana né servire l’eser­cito turco. Chiedo aiuto al Papa, sono venuto in Italia per parlargli».

Per parlare al Papa, Hakan Ekinci, 31 anni, è arrivato in Italia il 3 ottobre del 2006 dirottando su Brindisi il volo Tirana­-Istanbul. Salito sul Bo­eing della Turkish Airlines con un biglietto pagato dall’Unhcr l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifiugiati politici che lo aveva ospitato a Tirana Ekinci aveva in tasca due lettere: una per il pilota («scrissi che avevo addosso una bomba») e una per Benedetto XVI: «Non riesco più a re­spirare in una città musulmana. Mi consegno a Lei». Era il suo appello. Ekinci stringeva intorno alla vita qualcosa di strano. Sembrava una cintura da kamikaze zeppa di esplosivo: conteneva invece sette pac­chetti di sigarette. Il bluff tenne sulla corda per qualche ora 107 passeggeri e sei membri dell’equipaggio. Ekinci non voleva tornare a casa dopo la sua fuga in Albania e voleva che il mondo lo guardasse. Lo guardò, in effetti: dalle 16,40 alle 20,10. Quando scese con le mani alzate dalla scaletta del Boeing e si consegnò ai poliziotti, Ekinci mise mano alla cintura, sfilò una sigaretta, la portò alle labbra e l’accese. Sorrideva.

Ad agosto, scontata la pena, probabilmente salirà su un altro aereo che lo riporterà in Turchia. Il ministero italiano della giustizia ha già accolto la richiesta di estradizione formulata per i reati di truffa (Ekinci deve scon­tare in Turchia un anno e sei mesi, somma di tre distinte condanne) e la questura di Brindisi gli ha negato la richiesta di asilo politico (esclusa per coloro che abbiano commesso delitti contro la pubblica incolumità, in questo caso il dirottamento). Gli resta un’unica possibilità per ottenere l’asilo politico: la commissione terri­toriale per il riconoscimento dello status di rifugiato. Ekinci la incon­trerà in carcere tra qualche giorno e cercherà di convincerla che il dirotta­mento era il solo modo per fuggire.

La sua storia pubblica è finita in quell’istante nell’aeroporto Papola­ Casale di Brindisi. Hakan Ekinci non ha incontrato il Papa, ha subìto la condanna a tre anni e quattro mesi di reclusione e ora da una cella del car­cere di Taranto, dove è rinchiuso da gennaio, lancia il suo nuovo e ultimo appello: “Nessuno mi ascolta, nean­che la Chiesa. Vi prego, è impossibile essere cristiani in Turchia, ho già su­bito persecuzioni. Voglio restare in Italia. Salvatemi”.

In carcere ci sono rimasto un anno. Mi torturavano in tutti i modi, botte, scosse elettriche, con le pinze mi strappavano le unghie

«Non ha fatto male a nessuno» dice il suo giovane avvocato, Mariangela Spada. «Non aveva armi addosso. Vo­leva solo scappare. In Turchia era un perseguitato. Qui sperava di trovare un aiuto. La Chiesa non l’ha aiutato. Un sacerdote l’ha incontrato in car­cere. Ha detto che non si può aiutare chi ha messo in pericolo la vita di 113 persone».

Nato a Smirne, una sorella gioca­trice di pallavolo morta recente­mente, Hakan Ekinci ha una vita con­ troversa intrecciata alla storia di un Paese in cui la minoranza cristiana convive faticosamente con la maggio­ranza musulmana. Famiglia origina­ria della Iugoslavia, «obbligata a fre­ quentare la moschea», Ekinci si iscrive al liceo militare. «Lo decise mio padre. Fuggii più volte». Nel 1998 viene chiamato alla leva militare. Ci resta 18 giorni, poi viene rimandato a casa per motivi di salute. Nel 1999 si battezza. «In una chiesa di Smirne il cui parroco era un prete italiano, don Gino. Mi regalò il Vangelo» ricorda. Tre anni dopo, l’esercito lo richiama. Ekinci si oppone e finisce in un car­cere militare. «Ci sono rimasto un anno. Mi torturavano in tutti i modi, botte, scosse elettriche, con le pinze mi strappavano le unghie». Nel 2002, uscito dal carcere, scappa a Istanbul. «Con un documento falso procura­tomi da un amico. Per quattro anni mi feci chiamare Ilhami Koylu». Presen­tandosi come responsabile di una so­cietà di carte di credito, truffa tre commercianti. Viene scoperto e con­ dannato. Nel 2006 torna a Smirne per incontrare i genitori. Ma il padre av­verte le autorità militari. Lo arrestano per diserzione. «Altri sei mesi di carcere e di torture. Poi dichiarai di accettare la vita militare». Lo fa per poter scappare di nuovo. Va in Albania e chiede asilo politico. Da giugno a ottobre è nel campo rifugiati di Ti­rana gestito dall’Onu. Il governo alba­ nese non gli concede lo status di rifu­ giato e il 3 ottobre Ekinci viene rimpatriato. È una giornata particolare. Un mese prima, all’università tedesca di Ratisbona, un discorso di Benedetto XVI ha creato un incidente di­ plomatico con l’Islam (verrà ricucito nel dicembre successivo con il viaggio del Pontefice in Turchia).

Ekinci s’imbarca sul volo TK 1476, siede al posto 18F. Quando l’aereo è sul cielo greco, entra in azione. Or­dina di dirottare su Roma. «Voglio parlare col Papa». Il comandante Mursel Gokalp gli fa capire che non c’è sufficiente carburante. Racconta Ekinci: «Quando dirottai l’aereo, si mise in contatto con il comandante il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan. Credeva che la mia fosse un’iniziativa contro il Papa. Era sod­disfatto. Sentii in cuffia le sue parole. Mi disse: bravo. Gli risposi che non aveva capito niente. Spiegai: sono un cristiano. Allora mi trattò male, mi insultò dicendomi: quando tornerai in Turchia non vedrai il sole. Gli ri­sposi con sicurezza: va bene. Ero certo che il Papa mi avrebbe aiutato. Non ha fatto niente per me. Eppure ricordavo la storia di Ali Acga, l’atten­tatore di Giovanni Paolo II. Il Papa volle incontrarlo. Anch’io ci spero an­cora».

Il Secolo XIX, 9 maggio 2009

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