La notizia del 5 febbraio 2019 è questa, fonte Ansa.
Taranto. Tre collinette ‘ecologiche’, estese su un’area di circa 9 ettari, che erano state realizzate per mitigare gli effetti dell’inquinamento e delle emissioni odorigene del polo siderurgico ex Ilva, ora ArcelorMittal, sono state sequestrate dai carabinieri del Noe di Lecce. I militari hanno accertato che le collinette, di proprietà dell’Ilva spa in amministrazione straordinaria, sono diventate una “enorme discarica abusiva di svariate tonnellate di rifiuti industriali derivanti dalle lavorazioni del polo siderurgico, quali loppa, scorie d’altoforno ed altro che, esposti all’azione degli agenti atmosferici, hanno riversato nei terreni e nell’ambiente circostante, sostanze altamente tossiche e cancerogene come diossine, furani, pcb, idrocarburi e metalli vari”. Si tratta di un provvedimento di sequestro preventivo d’urgenza emesso dalla procura di Taranto. Gli accertamenti, avviati nel secondo semestre del 2018, sono stati suffragati nella parte tecnico-chimica dalle analisi effettuate da Arpa Puglia.
Le collinette vennero realizzate negli anni Settanta dall’Italsider (poi diventata Ilva, oggi ArcelorMittal) per tentare di creare una separazione tra il centro siderurgico e la città. Un’opera superflua, anzi dannosa. Di seguito uno stralcio di un capitolo di Generazione Ilva in cui si racconta delle colline e anche di Sergio Noce, ex direttore del centro siderurgico, che tentò disperatamente di trovare impossibili soluzioni per fare convivere Taranto con l’acciaieria.

di TONIO ATTINO
Quando era ormai arrivato il 1983 e mancavano sei anni all’evento che avrebbe ridisegnato la geografia del pianeta – la caduta del muro di Berlino – Noce fece chiamare uno dei suoi collaboratori, lo convocò in ufficio e gli comunicò la decisione. «Ingegnere, dobbiamo costruire un muro. Un muro alto venti metri tra noi e la città» disse.
L’inconsueta disposizione lasciò sorpreso l’interlocutore. L’ingegnere Biagio De Marzo era il capo delle manutenzioni dell’Italsider e pensò a quanto complesso sarebbe stato tirare su una barriera così maestosa cingendo il perimetro di 1500 ettari di fabbrica rendendola un’inespugnabile fortezza.
Quell’impresa monumentale simile alla Muraglia Cinese, impensabile e fuori da ogni logica razionale, doveva servire a separare materialmente lo stabilimento siderurgico dalle case impedendo all’inquinamento dell’Italsider di espandersi sulla città. Una vera blindatura senza precedenti avrebbe bloccato le polveri. Era questo il problema insoluto: le polveri dei parchi minerali.
I fumi non erano considerati un’emergenza, si era più o meno provveduto a limitarne i danni adeguando i comignoli, cioè allungandone il collo fino a duecento metri dal suolo affinché gli scarichi finissero in cielo, non soffocando le case vicine. Ma i parchi minerali incollati al quartiere Tamburi facevano allora gli stessi danni di oggi. Le polveri di carbone e il minerale ferroso ammucchiati in montagne alte quindici metri su quasi settanta ettari, volavano via a ogni soffio di vento nonostante gli idranti li irrorassero di una sostanza chimica che doveva coprirle e renderle compatte. Quando il pretore Franco Sebastio se n’era occupato aprendo un’inchiesta, erano cominciati i guai per Noce.
Così era nato il suo piano con il rimedio definitivo. De Marzo non sapeva che pesci prendere. L’opera in sé – un muro mastodontico – sarebbe stata facilmente digerita da una città già abituata a convivere con il gigantismo dell’Italsider e avendo per di più una solida e antica tradizione in tema di barriere. Le mura bizantine avevano circondato il borgo di pescatori nell’epoca preindustriale e dopo la demolizione avvenuta alla fine dell’Ottocento i tarantini s’erano visto spuntare davanti un altro muro alto sette metri, edificato per delimitare il nascente Arsenale militare. Quel muro, inizialmente lungo 3250 metri, crebbe piano piano. Oggi misura otto chilometri.

Considerati i precedenti e le tradizioni locali, una cosa era scontata: gli indigeni avrebbero metabolizzato anche quell’opera mostruosa. Ma le difficoltà ingegneristiche e costruttive – una barriera alta venti metri richiedeva scavi, robuste palificazioni, tonnellate di cemento armato – erano addirittura meno pesanti delle risorse finanziarie necessarie alla realizzazione. De Marzo fece qualche conto: circondare la fabbrica con un muro lungo più o meno sedici chilometri sarebbe costato, a prezzi attuali, circa 13.400 euro al metro. In totale, 200 milioni di euro. Una bella sommetta. Ne valeva la pena?
Noce ci pensò su e spiegò un po’ meglio la sua idea. «Il muro lo costruiamo solo tra l’Italsider e il quartiere Tamburi».
Risolvere la difficile convivenza tra la grande fabbrica e la parte più vicina della città era possibile con due, al massimo tre chilometri di muraglia. Quando capì di essere comunque alle prese con una spesa da 40 milioni di euro, De Marzo traccheggiò ed ebbe il tempo di commissionare a una società specializzata uno studio sugli effetti della barriera. Qualche settimana dopo si ripresentò con la simulazione computerizzata, la mise sulla scrivania del direttore e spiegò: «Investire tutti questi soldi non ha molto senso: il problema si sposta di circa cinquecento metri».
La simulazione dimostrava che le polveri italsiderine, sollevate dai parchi minerali, deviate dal super muro sarebbero ugualmente atterrate, con qualche volteggiamento supplementare, in un punto diverso, ma sempre sul quartiere Tamburi, sempre sulle case e sulla testa delle persone. Il direttore ascoltò con interesse le ragioni dell’ingegnere e a mano a mano che ascoltava qualcosa gli frullava nella testa.
Uomo di mondo e grande negoziatore, decisionista pragmatico ma dotato di ragionevolezza e di un senso dell’equilibrismo senza il quale non sarebbe rimasto neanche un minuto a gestire una megafabbrica in cui i manager di Stato comandavano insieme con la politica e i sindacati, Noce propose un accettabile compromesso: «Beh, allora facciamo una recinzione».
Perfettamente inutile quanto il muro, ma di gran lunga meno costosa, la recinzione si aggiunse a un’altra iniziativa con la quale una decina di anni prima l’Italsider aveva già cercato di mettere una diversa toppa allo stesso buco.
Nel 1972 l’azienda s’era rivolta a uno dei maggiori paesaggisti italiani, l’architetto fiorentino Pietro Porcinai, chiedendogli di escogitare una soluzione capace di isolare la fabbrica dalla città. Porcinai si mise a studiare, pensò alle esperienze fatte nella Ruhr, progettò una barriera di alture artificiali e alberi. Utilizzando il vento proveniente dal mare quella catena di colline avrebbe dovuto deviare il flusso delle polveri evitandone la ricaduta sulla città e riportandole all’interno del centro siderurgico con una affascinante piroetta. Costituite da un impasto di terra e di loppa – un materiale di scarto delle lavorazioni degli altiforni – le collinette dovevano spuntare intorno ai parchi minerali, rendendoli invisibili dalla città, neutralizzandone gli effetti nocivi.
Il progetto «era effettivamente una bella idea», ricorda Aldo Stante, chiamato a fare parte dell’équipe incaricata di metterla a punto, «e io mi occupavo delle misurazioni, utilizzai anche un dirigibile Goodyear. Ma un giorno, mentre se ne parlava con gli altri tecnici, dalla finestra vedemmo arrivare decine di camion carichi di terra e loppa. Stavamo ancora studiando la soluzione più idonea ma qualcuno aveva già ordinato la costruzione delle colline». Stante parla dell’Italsider di quei tempi gloriosi descrivendola come «un animale strano, provvisto di più mani: perché mentre qualcuno studiava, qualcun altro faceva scordandosi di quelli che studiavano; e qualcun altro, scordandosi i primi due, distribuiva gli appalti».
Tonio Attino, Generazione Ilva, Besa