Apologia del telefax (e dei giornali) prima di Internet e delle e-mail

Uscito nel lontano 1992, il libro Sono rimasto putrefatto riportava un capitolo sui giornali e il telefax, strumento probabilmente sconosciuto ai giovani. Forse sostituendo a “fax” la parola “mail” anche loro 
potranno farsi un’idea. Ecco il capitolo.

di TONIO ATTINO

Ogni giorno i messaggi telefax (chi vuole abbreviare li chiama fax, mentre Aldo Biscardi, come ha scritto il settimanale Panorama, li chiama fac al singolare e facs al plurale, all’inglese) contribuiscono a seppellire di carta le scrivanie dei giornalisti impegnati nella cronaca cittadina; quelle scrivanie già affollate da riviste e quotidiani spesso neppure sfiorati, da corrispondenza quasi sempre dirottata nel cestino senza essere aperta, ma soprattutto da pile di comunicati stampa di Comune, Provincia, circoli culturali o ricreativi, sindacati nonché di uomini smisuratamente innamorati della loro immagine che non potendo fare a meno di sentirsi celebri si eleggono presidenti o segretari generali di se stessi inventando improbabili associazioni “operanti nel sociale”, come essi dicono pur non capendone il significato.

Normalmente spropositato, il volume della carta che circola nelle redazioni è aumentato negli ultimi anni in maniera impressionante proprio grazie al telefax, un marchingegno – sia detto a beneficio di quei pochi che ancor non lo conoscono – capace di trasmettere a distanza, via telefono, lettere e comunicati stampa la cui utilità è il più delle volte prossima allo zero.

Il telefax è dappertutto: nei partiti e nei sindacati, negli studi professionali e nelle associazioni più squinternate. Quando uno non ha nulla da dire spedisce un comunicato per telefax; se invece ha un’ideuzza ne invia una dozzina. L’esperienza dimostra che il numero dei comunicati trasmessi in una qualunque redazione di giornale è inversamente proporzionale all probabilità di pubblicazione. Il motivo è intuibile: se per un improvviso attacco di follia – evento in verità non raro – un direttore decidesse di pubblicarli tutti nel medesimo giorno, un quotidiano sarebbe voluminoso quanto un’enciclopedia e vivace quanto l’elenco telefonico.

Il telefax ha però avuto il merito di permettere a chiunque la comunicazione con i giornali. E’ sufficiente conoscerne il numero di telefono per portare un’analisi critica sugli equilibri politici internazionali dopo il crollo del muro di Berlino o una dissertazione sulle prospettive di pace nel Medio Oriente sul tavolo di un cronista che si occupa solo di mercati, traffico e della – esiste realmente – “commissione provinciale per il controllo sull’osservanza delle disposizioni concernenti la commercializzazione delle uova”. Il che è altamente democratico. Il telefax è dunque uno strumento indispensabile in una nazione civile. E basta guardarsi intorno per averne conferma.

Nell’estate del 1989 i giornali e la tv riferiscono quotidianamente che i Paesi del Terzo Mondo sono stanchi di essere la pattumiera d’Italia, cosicché le navi cariche di scorie industriali che attraccano alle loro coste sventolando allegramente il tricolore vengono rispedire al mittente. Ma qual è con precisione il mittente italiano? Poiché nessuno lo sa, le navi seguitano a navigare in attesa di un approdo.

Una di queste navi, la Deepsea Carrier, punta minacciosamente la prua verso Taranto. Gli ambientalisti insorgono. I politici che dapprincipio dicono “sì”, subito dopo dicono “no” e quelli che invece erano per il “no” cominciano a essere per il “sì”. E’ insomma tutto nella norma. In questo guazzabuglio ciascuno esprime la sua opinione: via telefax. C’è chi si oppone seccamente nel nome dell’ecologia e chi la mette sul concreto affermando in sostanza: noi siamo disposti a prenderci questa rogna purché la città abbia una valida contropartita.

Casta illuminata dalla scienza, l’Ordine degli ingegneri sceglie la seconda ipotesi e affida il suo messaggio al comunicato stampa. Questo: “Mentre è da respingere il concetto del baratto tra male e bene, è chiaro che le cose vanno valutate esclusivamente su basi scientifiche, economiche e sociali, con criteri obiettivi, se si vuole stabilire ciò che Taranto può dare (o deve dare) e ciò che Taranto deve avere per dare ciò che deve dare in tema di impatto ambientale”.

E’ un decisivo contributo alla chiarezza. Per fortuna dei giornalisti, disorientati dalla tormenta di comunicati stampa, la Deepsea Carrier, la cosiddetta “nave dei veleni” che l’onorevole Antonio Bruno (socialdemocratico notissimo per avere proposto la riapertura dei bordelli in collina) si ostina a chiamare “nave dei veleni, la cosiddetta Deepsea Carrier” (tutto all’incontrario) fa dietro-front. Il pericolo è scampato.

In quei giorni, anche i più disattenti scoprono le qualità comunicative del telefax e comprendono quanto le tecnologie moderne abbiano contribuito ad avvicinarsi a quel “villaggio globale” ipotizzato da Marshall McLuhan, sociologo canadese che è sempre bene citare per darsi un tono.

Tonio Attino, Sono rimasto putrefatto, Edizioni Tracce

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