Lapo, John e gli altri. La doppia morale di chi porta soldi all’estero e fa la beneficenza in Italia
di TONIO ATTINO
“Hai visto quanta beneficenza sta facendo Lapo?”. Quando parla dei personaggi famosi visti in televisione, mia madre li tratta con insolita familiarità e addirittura – la beneficenza le fa questo effetto – con una certa ammirazione. Lapo, cioè Lapo Elkann, nipote del defunto avvocato Giovanni Agnelli e fratello di John Elkann, presidente della Fca (Fiat Chrysler Automobiles), ha promosso insieme alla Croce Rossa Italiana una campagna di raccolta fondi per aiutare le famiglie bisognose nei giorni del flagello Covid-19. Anche John, il fratello di Lapo, ha versato con la sua famiglia dieci milioni di euro; e dieci milioni – per citare un altro caso – li ha tirati fuori Silvio (Berlusconi), fondatore di Mediaset e Forza Italia.

Altruisticamente e con inappuntabile orgoglio nazionale, Lapo (Elkann) aveva cominciato a difendere la patria il 13 marzo. Replicando al medico britannico Christian Jessen, conduttore tv secondo cui gli italiani hanno profittato del Coronavirus per fare una “lunga siesta”, lo ha invitato a darsi una calmata (“quando parli dell’Italia alzati in piedi”), complimentandosi poi con il cugino Andrea (Agnelli), impegnato anch’egli in una raccolta di fondi.
Ora è inutile mettersi a fare l’elenco dei benefattori perché l’Italia è un Paese pieno di persone generose. Però il patriottismo di questi giorni merita un po’ di attenzione. Sorvolando sul riscoperto desiderio di unità nazionale e sui balconi popolati di connazionali impegnati a suonare al sax o al clavicembalo l’inno di Goffredo (Mameli), l’emergenza Coronavirus ci ha consegnato una retorica sovrabbondante, uno slogan copiato dai telefilm americani (“andrà tutto bene”), la promessa alla quale dovremmo credere per tirarci su il morale (“nessuno sarà lasciato solo”) e infine la categoria cui adesso dovremmo un po’ di riconoscenza: i patrioti da esportazione.
Contro ogni slogan, le previsioni dicono purtroppo che usciremo malconci da questo periodo e verosimilmente non andrà tutto bene. Secondo le cifre diffuse agli inizi di aprile dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro – agenzia delle Nazioni Unite – l’81% della forza lavoro globale (cioè 3,3 miliardi di lavoratori) è interessata dalla chiusura totale o parziale delle attività produttive e circa 1,25 miliardi di lavoratori sono impegnati nei settori ad alto rischio di licenziamento. La “peggiore crisi globale dai tempi della Seconda guerra mondiale”, come la stessa Oil la definisce, farà crollare il prodotto interno lordo globale del tre per cento e schizzare a 9000 miliardi di dollari le perdite per l’economia mondiale (fonte Fondo Monetario Internazionale). Intanto l’Italia ha già un milione di nuovi poveri (Coldiretti), sono aumentate del 114% le richieste di aiuto alimentare (Caritas), caleranno del 60% per cento le presenze turistiche nel 2020 (Assoturismo) e rischiano di chiudere 50mila imprese con un taglio di 300mila posti di lavoro (fonte Fipe, la federazione pubblici esercizi di Confcommercio).
Vivessimo in un mondo perfetto, ora staremmo a discutere di come cambiare profondamente il nostro sistema sociale ed economico anziché andare a caccia semplicemente di una toppa abbastanza grande per coprire un gigantesco buco. Invece abbiamo seguìto – e non è finita – il surreale dibattito europeo in cui una moderna nazione del nord – l’Olanda – si è opposta all’emissione di titoli (i cosiddetti coronabond) destinati a offrire liquidità ai Paesi più colpiti, in linea con un rigore contabile che lei per prima non rispetta. D’altronde l’Olanda non sarebbe riuscita a raddrizzare i suoi conti se negli ultimi decenni, insieme a Lussemburgo, Irlanda, Belgio, Cipro, Malta e Ungheria, non fosse diventato un paradiso fiscale.
Grazie a questo club di nazioni, ogni anno la Germania ci rimette 19 miliardi di entrate fiscali, la Francia 17 e l’Italia 6,5, di cui 1,5 miliardi attribuibili solo all’opera dell’Olanda, una calamita delle holding che attrae quindicimila società finanziarie straniere da cui transitano ogni anno 4500 miliardi (tassati solo 199). Mentre il governo italiano si indigna per la severità olandese sui coronabond, decine di aziende italiane – ultima in ordine di tempo, la Campari – hanno preso sede in Olanda; anche Luxottica, Cementir, Eni, Enel, Ferrero, Prysmian, Saipem, Telecom; anche la stessa Mediaset fondata da Silvio Berlusconi, anche la Exor, la cassaforte attraverso cui la famiglia Agnelli-Elkann controlla Fiat Chrysler Automobiles, olandese ormai dal 2014.

Perfino un settimanale equilibrato come Famiglia Cristiana ha sottolineato come sia deprecabile la doppia morale sia dell’Olanda sia di chi porta i soldi all’estero e fa beneficienza in Italia, ma possiamo dircelo sinceramente: non c’è nulla di nuovo. Quando nel 2009 il numero uno Sergio Marchionne dichiarò pubblicamente che cinque anni prima, nel momento di maggiore crisi, la Fiat non aveva chiesto aiuti allo Stato, un libro scritto dal giornalista Marco Cobianchi gli ricordò che invece aveva intascato 353 milioni e nel 2012 una indagine dell’ufficio studi della Cgia, associazione artigiani e piccole imprese di Mestre, mise in fila le cifre riepilogando: dal 1977 al 2012 la Fiat aveva incassato fondi pubblici per 7,6 miliardi di euro. E quando la morte dell’avvocato Giovanni Agnelli, avvenuta nel 2003, aprì la partita dell’eredità si scoprì, nel corso della lite tra la famiglia e Margherita Agnelli (mamma di Lapo e John) che una parte dei fondi esclusi dall’asse ereditario – oltre un miliardo di euro – era finito in Svizzera. Poi la vecchia Fiat si è sposata con la Chrysler, ha fatto le valigie e John (Elkann) ha conquistato Gedi, gruppo editoriale che controlla Repubblica, La Stampa, il Secolo XIX, L’Espresso, sei riviste, tredici quotidiani locali e tre emittenti radiofoniche annunciando un piano di rilancio che passa anche attraverso due mosse: il licenziamento di Carlo Verdelli, direttore di Repubblica, un giornalista di grande qualità messo alla porta in ventiquattro ore, e un nuovo piano di tagli, cioè di prepensionamenti a carico – fanno così gli editori italiani – dell’istituto di previdenza dei giornalisti italiani, l’Inpgi. E’ la storia di sempre: privatizzare i profitti, socializzare le perdite.
Ecco la grande rivoluzione, ecco il mondo che consegneremo alle nuove generazioni dopo il disastro della pandemia, mentre Lapo fa marketing difendendo l’Italia dai conduttori tv andando in tv e i suoi consanguinei la aiutano portando i soldi all’estero e versando un obolo ai poveri. Andrà tutto bene? Nella migliore delle ipotesi, andrà come al solito.
Il passaggio di Repubblica e tutti i giornali di ex GEDI a John Elkann,mi ha fatto ricordare la Fiat degli anni Sessanta quando i cronisti non potevano citare il nome della Fiat, per ordine tassativo, se scrivevano la cronaca di un incidente stradale. Fu redarguito il giovani cronista Giampaolo Pansa per aver scritto che una Fiat 1100 era andata a sbattere contro un albero a causa di un freno mal funzionante.
Non è che mister John farà come suo nonno Gianni nel controllo della stampa italiana? Ai posteri l’ardua sentenza.
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Ricordo interessante Rocco. Grazie
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