La lezione dimenticata di don Milani, il prete rivoluzionario che visse per aiutare poveri, operai e contadini

Nacque a Firenze cent’anni fa, il 27 maggio 1923. E negli anni delle scuole speciali fondò la scuola popolare con l’obiettivo di togliere da una posizione di subalternità gli analfabeti e donare loro la libertà. Fu osteggiato da tutti, in primo luogo dalla Chiesa

Oggi 27 maggio 2023 don Lorenzo Milani avrebbe compiuto cent’anni. Lo celebriamo, ma mai abbastanza. Lo avrebbe meritato più di mezzo secolo fa, quando era dalla parte dei poveri e degli esclusi e venne invece considerato un sovversivo. L’inclusione, adesso in voga, ma spesso solo a parole, don Milani la praticò quando esisteva ancora l’istruzione delle scuole speciali e delle classi differenziali. Nato a Firenze nel 1923, don Milani morì nel 1967, a 44 anni.


Io mi considero prete soltanto per i contadini, per gli operai, per i comunisti, per quelli che non vanno in chiesa, per le persone più lontane. E la mia vita la voglio dedicata esclusivamente a loro.

don Lorenzo Milani

di TONIO ATTINO

Negli anni Cinquanta oltre la metà degli italiani, il 59,2 per cento, non aveva la licenza elementare mentre il tredici per cento non sapeva leggere né scrivere. Nelle aree rurali l’istruzione era praticamente sconosciuta, eppure in un posto sperduto dell’Appennino toscano avvenne qualcosa di straordinario: un sacerdote diventò l’avanguardia dell’educazione e della scuola. Stava dalla parte dei poveri, degli ultimi, degli analfabeti resi schiavi dalla mancanza di cultura. Combatté al loro fianco, li aiutò, li incluse nel mondo a modo suo, da pastore e da maestro. Non ebbe vita facile, incontrò ostacoli, venne considerato un pericolo, addirittura un sovversivo, suscitando l’ostracismo del suo stesso mondo – la Chiesa – che dovrebbe sempre tendere una mano a chi ha bisogno, ma la negò perfino a lui. A distanza di oltre mezzo secolo, don Lorenzo Milani resta un esempio di coraggio, di lungimiranza e di modernità, come può esserlo un uomo controcorrente che teorizzi scandalosamente, e addirittura in una società arretrata appena uscita dalla seconda guerra mondiale, «l’obbedienza non è più una virtù». Sacerdote e uomo sempre dalla parte dei deboli – le due parole, sacerdoti e deboli, non stanno necessariamente insieme – don Milani fece la sua personale rivoluzione inclusiva in un piccolo, dimenticato paesino montanaro del Mugello. Così diventò un prete disubbidiente. L’unico modo, evidentemente, per essere davvero un prete.

La storia è questa, 7 dicembre 1954. Don Lorenzo Milani, fiorentino, ha trentuno anni quando viene mandato a Barbiana, un paesino di 124 abitanti sull’Appennino toscano, dove c’è poco o nulla: una chiesa, una canonica e un mucchietto di case sparse sulle montagne. Dopotutto lo hanno mandato qui per punizione. Famiglia ricca e colta, don Lorenzo, ordinato sacerdote nel 1947, era stato nominato cappellano nella parrocchia di San Donato Calenzano: vi aveva fondato la sua scuola popolare per affrancare dall’analfabetismo poveri, contadini e operai, aiutandoli ad acquisire una coscienza critica e a sentirsi persone libere. In una società rurale e con classi sociali divise nettamente, non è comune impegnarsi per dare dignità ai diseredati. Don Lorenzo fa di più. Scrive le sue esperienze in un libro nient’affatto condiscendente sulla società e i suoi valori. Esperienze pastorali – è questo il libro – esce il 25 marzo 1958. La Chiesa non apprezza, anzi nel dicembre successivo arriva la condanna del Sant’Uffizio, cosicché le gerarchie ecclesiastiche decidono per l’esilio. Don Lorenzo deve sloggiare, viene nominato così parroco a Barbiana, un piccolo popolo di pastori, braccianti, operai, contadini. Diventano la sua famiglia. Don Lorenzo è un prete scomodo, tosto: sa di esserlo. Scrive alla madre: «Io non splendo di santità. E neanche sono un prete simpatico. Ho anzi tutto quello che occorre per allontanare la gente. Anche nel fare scuola sono pignolo, intollerante, spietato. Non ho retto i giovani con doni speciali d’attrazione. Sono stato solo furbo. Ho saputo toccare il tasto che ha fatto scattare i loro più intimi doni. Io ricchezze non ne avevo. Erano loro che ne traboccavano e nessuno lo sapeva. Ho toccato il loro amor proprio, la loro naturale generosità, l’ansia sociale che è nell’aria del nostro secolo e quindi nel fondo del loro cuore, l’istinto di ribellione all’uomo, dell’affermazione della sua dignità di servo di Dio e di nessun altro». 

In queste parole c’è il sacerdote che ha deciso di andare contro la morale comune per aiutare i bisognosi, dando loro un’educazione che significa riscatto, libertà, giustizia sociale. Molti anni prima, alla fine dell’Ottocento, il filosofo e pedagogista John Dewey ha fondato all’Università di Chicago una scuola-laboratorio, sperimentando le sue nuove teorie pedagogiche che ribaltano la prospettiva educativa e mettono al centro della scuola non il programma didattico e il docente, bensì l’allievo. Si passa così dal tradizionale trasferimento delle conoscenze tra insegnante e discente a un più moderno e aperto interscambio in cui l’allievo diventa protagonista del proprio percorso di crescita sotto la guida di un educatore più esperto. La scuola non è quindi soltanto la strada per la democrazia: è essa stessa democrazia. L’esperienza di scuola-laboratorio, di scuola democratica di John Dewey dura sette anni, dal 1896 al 1903. È molto probabile che don Milani non conosca gli studi di Dewey e due ragioni lo lasciano pensare: i libri di Dewey cominciano a circolare alla fine degli anni Quaranta, quando la scuola popolare di Calenzano è già nata; e poi alla fine del 1962 don Lorenzo scrive al suo grande amico giornalista Giorgio Pecorini per chiedergli «quale sia il più importante dei libri del Dewey».  Fatto sta che l’azione di don Lorenzo e quella di John Dewey hanno interessanti punti di contatto. Entrambi considerano l’istruzione la via maestra per affrancarsi dalla subalternità nei confronti degli altri, dei potenti, dei privilegiati.

Don Lorenzo si getta con tutta la sua passione e il suo spirito critico in questa avventura. Vista con gli occhi di oggi, avrebbe dovuto riceverne la riconoscenza delle autorità ecclesiastiche, che però sono le prime a schierarsi contro di lui. La Scuola di Barbiana è uno scandalo. Un mondo con enormi differenze sociali tollera poco chi esce dagli schemi, e gli schemi vedono le rigide gerarchie sociali con i poveri fermi all’ultimo gradino. A quei tempi gli allievi di don Lorenzo – bambini, adulti, contadini, operai – possono al massimo frequentare le scuole speciali, o le classi differenziali, essere cioè ghettizzati, emarginati. Invece questo prete coraggioso li prende con sé. Fa studiare loro l’italiano, la storia, le lingue, rendendoli coautori, nel 1967, di un libro che Pierpaolo Pasolini considera un capolavoro. Lettere a una professoressa è un atto di accusa alla scuola italiana, di cui si denunciano l’arretratezza e le disuguaglianze, anche con efficaci metafore, come questa: «Al tornitore non si permette di consegnare solo i pezzi che son riusciti. Altrimenti non farebbe nulla per farli riuscire tutti. Voi invece sapete di poter scartare i pezzi a vostro piacimento. Perciò vi contentate di controllare quello che riesce da sé per cause estranee alla scuola».

A metà degli anni Sessanta don Milani finisce sotto processo. Il 12 febbraio 1965 il quotidiano La Nazione pubblica un comunicato con cui il gruppo toscano dei cappellani in congedo esprime il suo dissenso verso l’obiezione di coscienza, definendola «un insulto alla Patria e ai suoi caduti», una idea «estranea al comandamento cristiano dell’amore» nonché «espressione di viltà». Don Lorenzo, nella «duplice veste di maestro e di sacerdote», reagisce leggendo ai ragazzi di Barbiana una replica durissima e rivolgendosi ai cappellani militari pronuncia parole non interpretabili. «Le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io – dice – sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto. Abbiamo dunque idee molto diverse. Posso rispettare le vostre se le giustificherete alla luce del Vangelo e della Costituzione. Ma rispettate anche voi le idee degli altri. Soprattutto se son uomini che per le loro idee pagano di persona». Il 23 febbraio don Lorenzo fa stampare il suo discorso in tremila copie, lo distribuisce ai cittadini, ai preti fiorentini, ai sindacalisti. Lo consegna anche ai giornali. Nessuno lo pubblica tranne il periodico comunista Rinascita che lo mette in pagina nel numero del 6 marzo 1965. 

Dopo un esposto presentato alla procura di Firenze da un gruppo di ex combattenti, si apre un procedimento penale in cui il direttore del giornale, Luca Pavolini, per i reati di incitamento alla diserzione e incitamento alla disubbidienza militare, viene condannato a cinque mesi e dieci giorni nel secondo grado di giudizio – è il 28 ottobre 1967 – dopo l’assoluzione in tribunale. La condanna ricade però sotto l’aministia. Per don Milani non c’è condanna. Muore prima della sentenza, il 26 giugno, a 44 anni, per un linfoma di Hodgkin. Lascia ai suoi studenti il suo esempio e il suo motto, «I care». Perché don Lorenzo si prendeva cura di loro, da maestro e da sacerdote. Quella di don Milani resta purtroppo un’esperienza isolata. Il suo impegno ha cambiato Barbiana, non l’Italia. Il numero delle scuole speciali cresce costantemente passando dalle 210 unità dell’anno scolastico 1956/57 alle 790 del 1967/68. Raggiunge il massimo nell’anno scolastico 1973/74 con 1453 istituti. Verranno abolite nel 1977.

Anche la Chiesa aspetterà a lungo per riconoscere la figura di questo sacerdote ribelle, rivoluzionario, disubbidiente; o forse sacerdote e basta. Papa Francesco, il 19 giugno 2017, va a Barbiana a pregare sulla sua tomba. E sul libro delle dediche scrive: «Ringrazio il Signore per averci dato sacerdoti come don Milani». Peccato avere aspettato cinquant’anni. Peccato, dopo sessanta, non si sia fatto ancora abbastanza per seguire il suo esempio.

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