I 95 anni di Valentino Gennarini, l’imprenditore partigiano. “Licenziare? Non lo farò mai”

La figura ostinatamente controcorrente di un uomo simbolo. “I lavoratori? Dovrebbero essere tutelati. La parola dipendente non mi piace. Senza di loro non varrei nulla”. L’intervista in cui racconta la sua storia

Festeggia oggi 95 anni Valentino Gennarini, mecenate e imprenditore di cui il Mezzogiorno dovrebbe essere orgoglioso. Storico imprenditore portuale, Gennarini ha attraversato interamente l’industrializzazione di Taranto, dagli anni dell’euforia siderurgica al declino dell’acciaieria, restando – concretamente e silenziosamente – dalla parte dei bisognosi . Come regalo – ma non tanto a lui, mi rendo conto, quanto a coloro che non lo conoscono, i giovani soprattutto – ho pensato di ripubblicare l’intervista che per il Corriere del Mezzogiorno gli feci nel 2014. Non voleva essere intervistato né fotografato. Siamo diventati amici allora. Auguri di cuore, Valentino.

di TONIO ATTINO

«La mia azienda è in perdita da anni. Ma io non mollo. Prima ci lavoravamo in 20, ora siamo rimasti in cinque. Gli altri sono andati in pensione, non ho mai licenziato nessuno. Sarebbe stato immorale». 

Valentino Gennarini ha 86 anni ed è un esempio di stile e di misura. I giovani, se avessero voglia di ascoltare un signore elegante che parla sottovoce di crisi, passato e futuro, dovrebbero stare a sentirlo. Imprenditore e mecenate, guida l’agenzia marittima che porta il cognome suo e del papà Carlo, il fondatore. Nata ai primi del Novecento, l’agenzia Gennarini è la più antica di Taranto ed è stata una delle più floride del Mezzogiorno finché la privatizzazione dell’Ilva e l’arrivo di Emilio Riva alla guida del centro siderurgico non portò via da Taranto la gestione dei traffici marittimi. C’è un processo per concorrenza sleale. In primo grado l’Ilva ha avuto ragione. «Aspettiamo il secondo». In un bel palazzotto della città vecchia, nel suo ufficio vista mare, Valentino Gennarini parla pacatamente. Solo per qualche istante durante il dialogo si ferma commosso. Quando ricorda una quindicina di partigiani morti. «Ero un ragazzino, non avevo mai visto una persona morta…». Probabilmente quell’istante cambiò la sua vita. 

Signor Gennarini, da quanti anni la sua azienda è in perdita? 

«Più o meno da quindici. Abbiamo accumulato una perdita di circa ottocentomila euro». 

Effetto Ilva, anzi effetto Riva? 

«Sì. Quando arrivò Riva mandò un’agenzia marittima da Savona a occuparsi dei traffici del centro siderurgico a Taranto. Ma è successo anche con l’Eni». 

Ha mai pensato di mollare? 

«No. Qualcuno ha detto che non sono un imprenditore. Avrei dovuto chiudere. Ma io non lo faccio, per la storia mia e della mia famiglia. E per orgoglio. Evidentemente non sono un imprenditore». 

Quante navi gestiva ai tempi d’oro l’agenzia marittima Gennarini? 

«Negli anni Ottanta, oltre mille l’anno». 

E oggi? 

«Ventisette nel 2013. Quest’anno 38, finora». 

Quanti dipendenti ha licenziato nella sua vita? 

«Nessuno».

Come è possibile? 

«Ho avuto personale di prim’ordine per correttezza, capacità e moralità. Uno migliore dell’altro. Ma li ho sempre considerati collaboratori. La parola dipendente non mi piace». 

Ha avuto mai la tentazione di licenziare? 

«No. Potrei farlo per giusta causa, la mia è un’azienda in crisi. Ma non l’ho mai fatto e non lo farò. Dire: Giovanni, tu vai; Antonio, tu resti… no, non sarebbe morale». 

Un imprenditore non deve poter licenziare? 

«Dipende dalle condizioni. Un imprenditore deve fare profitto. Quindi è vero: io non sono un imprenditore. In tutta la mia attività non ho mai ricevuto una vertenza sindacale. Anzi, ho praticamente costretto i miei collaboratori a iscriversi al sindacato». 

Perché? 

«Dicevo ai miei collaboratori: noi oggi ci siamo, e domani? Meglio che voi siate protetti. Così si iscrissero chi alla Cisl, chi alla Uil, chi alla Cgil. Scelsero loro, ma non lo fecero volentieri. Non ne vedevano la ragione. Io ho accompagnato i miei collaboratori alla pensione, ho fatto in modo che comprassero casa. Pagavo loro lo straordinario anche quando l’agenzia non lo richiedeva più, data la crisi. I figli studiavano, avevano il mutuo da pagare. Ricordo che assunsi un giovane di Palermo. Aveva casa ma fu sfrattato e prese un’altra casa in fitto accanto a un campo di fave. Scoprì che il figlio era affetto da favismo. Voleva tornare in Sicilia. Lo aiutai a comprare un’abitazione. Mi restituì i soldi con la trattenuta sulla busta paga. È ancora a Taranto, in pensione. Viene a trovarmi» . 

Se lei non è un imprenditore, che cos’è, allora? 

«Non lo so, non so definirmi. Penso di avere umanità». 

Abolirebbe l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori? 

«È un argomento difficile. Penso che i lavoratori dovrebbero essere tutelati. C’è chi li tratta bene e chi li sfrutta. E’ immorale. Dopotutto la forza delle aziende sono i collaboratori. Io da solo non varrei niente». 

Se tornasse indietro? 

«Rifarei tutto». 

Anche nella gestione dei rapporti con le grandi industrie di Taranto? 

«Negli anni scorsi mi fu proposta per due volte la presidenza dell’Autorità portuale. Mi sostenevano da destra e da sinistra. Ma ero in conflitto di interessi. Angelici, ex sindacalista della Cisl e deputato, mi disse: dai le dimissioni dall’agenzia. Ma l’agenzia sarebbe sempre stata mia e da presidente avrei avuto un vantaggio». 

Rifiuterebbe ancora oggi? 

«Sì, però in tanti mi hanno detto che ho sbagliato». 

I suoi figli sono stati sempre d’accordo con le sue scelte? 

«Sì. Dei miei due figli, uno è in azienda, l’altro ha deciso di andare all’estero. Maurizio è qui e vuole continuare il mio lavoro. È bravo. Meno male che vuole andare avanti. Altrimenti finirebbe la storia». 

Quante ora sta in azienda ogni giorno? 

«Otto ore, ma quando ero giovane 14-15. Vengo qui il sabato e la domenica. Noi siamo sempre a disposizione, anche di notte. Un’agenzia marittima ha il compito di mediare tra l’interesse pubblico e l’interesse privato dell’armatore. Arrivo alle 8,30. Spesso guardo l’orologio come dovessi timbrare il cartellino». 

In agenzia ci sono i marcatempo? 

«No», sorride. 

Mai pensato di diversificare la sua attività, di avviarne altre? 

«Mai. Ho sempre pensato di fare questo mestiere, come mio padre». 

Però ha investito sul bene comune. 

«La cosa di cui vado fiero è di avere sostenuto dal 2006 al 2012 il corso universitario di diritto della navigazione. Senza fondi l’avrebbero soppresso».

Quanto ha dato alla sua città?

«È imbarazzante parlare di cifre e non voglio farlo. Ricordo con piacere una vicenda di tanti tanti anni fa. Nella città vecchia c’era un bambino malato, aveva credo 11 anni. Rischiava di perdere un occhio e una malattia aveva attaccato anche l’altro. Fu operato a Houston, diedi una mano, andò tutto bene. Non sempre mi è stato consentito di aiutare gli altri. Una volta mi offrii di acquistare un’ambulanza al porto, ma il vecchio presidente dell’autorità portuale disse: ci penso io. L’ambulanza non arrivò». 

Le cose che contano di più nella vita? 

«Due. La prima è il senso dello Stato. Circa trent’anni fa ebbi in agenzia un controllo, la guardia di finanza verificò la contabilità. I soldi che transitavano in azienda, invece di metterli sul conto corrente bancario, li depositavo in titoli di Stato. Il conto corrente bancario fruttava troppo poco, i titoli di Stato rendevano 12-13 per cento. Mi sembrava esagerato guadagnare tanto. I titoli erano esenti da tassazione, ma io li mettevo ugualmente in bilancio per farli tassare. Un maggiore della Finanza mi disse: lei è unico in Italia». 

Pentito? 

«No, assolutamente. In un’altra occasione un ufficiale della guardia di finanza mi disse: so tante cose di lei. Chi mi stava intorno rimase sorpreso, chissà che cosa immaginava, poi l’ufficiale aggiunse: lei ha il Dna della legalità». 

Serve? 

«Molto. La moralità è importante». 

La seconda cosa che conta di più, per lei? 

«Il bene comune. Aiutare gli altri è un inno alla vita. Chi può, deve fare. Mi spiace non poter contribuire quanto un tempo, ma in misura minore do ancora una mano». 

Le è mai capitato di avere avuto bisogno di un aiuto? 

«Sì, certo». 

Gliel’hanno mai dato? 

«Mai. Perfino nel lavoro ho cercato di aiutare gli altri, anche i concorrenti. Non sono stato ripagato». 

Lei è credente? 

«Sì ma non è questo che mi induce a fare quel che faccio. Sono così». 

Che giudizio dà dei suoi colleghi? 

«A queste domanda non rispondo». 

Quale opinione ha della politica? 

«Mah. Negativa. Non mi piace. Spero cambi. Avrebbe dovuto difenderci perché noi tarantini siamo isolati. Il porto è nostro, eppure tutta la ricchezza finisce fuori». 

Si sente più di destra o di sinistra?

«In un certo senso di centrosinistra». 

Perché? 

«Il centrosinistra dovrebbe essere più vicino al popolo. Io sono iscritto all’associazione partigiani. Ricordo quando la mia famiglia sfollò a Favale di Malvaro, in Liguria, dove vivevano due mie sorelle. Noi ragazzi andavamo tutti i giorni sulla montagna dove si nascondevano i partigiani della Brigata Garibaldi: portavamo loro acqua e viveri. Erano una quindicina, quasi tutti meridionali, uno di Gioia del Colle. Poi un giorno sentimmo bombardare. Quando tornò la quiete io e altri ragazzini andammo su. Li trovammo tutti morti. Non avevo mai visto dei morti. Pensavo stessero distesi. Uno invece aveva un braccio e una gamba alzati. Non ho mai dimenticato».

Come immagina Taranto, domani? 

«Mi piacerebbe fosse vivibile, con persone diverse. Quando mi dicono parlando del passato: erano altri tempi, io rispondo: erano altri uomini. Sono gli uomini che fanno i tempi, non il contrario». 

E l’Ilva come la immagina, domani? 

«Avrebbero dovuta costruirla in altro modo, avendo più rispetto per la città. Ma non credo ci sia un’alternativa, oggi. Bisognerebbe renderla ecocompatibile, e io penso si possa fare. E intanto pensare a qualcosa d’altro». 

Cosa? 

«Ecco, non so rispondere. Per me Taranto è e resta una città navalmeccanica. Era questa la sua vocazione». 

Ha speranza? 

«Sì, la speranza non bisogna mai perderla. L’ho sempre avuta, ce l’ho ancora». 

dal Corriere del Mezzogiorno, 12 ottobre 2014

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