di TONIO ATTINO
Un operaio di 58 anni è morto in una fabbrica di cavi elettrici a Brendola (Vicenza) ieri, 5 maggio, ucciso da un macchinario che stava utilizzando. Poche ore dopo a Frattamaggiore (Napoli) un operaio edile di 47 anni è morto precipitando dall’ impalcatura di un cantiere. E ieri l’altro, 4 maggio, a Ovaro (Udine), un operaio di 50 anni è morto travolto da un muletto in una cartiera. Eppure solo cinque giorni fa, per le celebrazioni del Primo Maggio, la consueta retorica ci aveva portati po’ contromano rispetto alla realtà. È normale che la politica e i sindacati la usino, è normale ovviamente stupirsene. Non si può fare l’abitudine a tutto, le parole sono importanti. Qualcuna di queste parole le ho sottolineate, leggendo le cronache. Queste, per esempio. “Questa vergogna deve finire”.
Daniela Fumarola, segretario generale nazionale della Cisl, sindacalista di Taranto, cioè una città industrializzata e purtroppo abituata alle sciagure, le ha pronunciate celebrando il Primo Maggio sul palco di Casteldaccia, comune della provincia di Palermo in cui esattamente un anno fa, il 6 maggio 2024, cinque operai di un’azienda privata morirono mentre eseguivano lavori di manutenzione all’interno di una vasca della rete fognaria. Furono uccisi dalle esalazioni di idrogeno solforato. “Questa vergogna deve finire” ha detto la segretaria della Cisl in uno slancio retorico. Questa vergogna ha attraversato la recente storia d’Italia e, purtroppo, non finisce.
Le parole sono importanti, e pure i numeri. Possiamo ricordarli? Nel 2024 sono morti sul lavoro in 1090 e nei primi tre mesi di quest’anno ci hanno lasciato la pelle in 205. Erano stati 1.041 nel 2023 e 1.208 nel 2022. Da trent’anni il numero degli infortuni sul lavoro resta sostanzialmente costante, “senza accennare a diminuire in modo significativo, nonostante il progresso della tecnologia e le battaglie dei sindacati” ha ricordato il quotidiano Il Tirreno citando i dati dell’Inail, l’istituto nazionale assicurazione infortuni sul lavoro.
Certo, va meglio rispetto agli anni Cinquanta e Sessanta, quando gli incidenti mortali erano più del doppio rispetto ad oggi: 3.511 nel 1951, sempre sopra i 3.700 fino al 1960, oltre 4mila tra il 1961 e il 1964, con il record del 1963: 4.644. La tendenza si è invertita dalla seconda metà degli anni Settanta. Poi trent’anni sempre uguali. Nel decennio 1990-1999 sono morti in media 1.603 lavoratori all’anno; nel 2000-2009 ne sono morti 1.312; nel 2010-2019 il numero è stato di 1.292.
Sessantotto governi si sono succeduti durante la storia della Repubblica italiana “fondata sul lavoro” senza riuscire a fare un serio passo avanti e adesso, tra un Primo Maggio e l’altro, si può riporre qualche speranza nell’ultimo (o nel prossimo). I numeri purtroppo non aiutano a essere ottimisti. Attualmente siamo inchiodati a una media di tre morti al giorno. Significa che mentre si dice “questa vergogna deve finire” – urlando un auspicio, una speranza, un augurio e null’altro – si ha la certezza statistica che non sarà così. I numeri aiutano a capire, la retorica né a capire né a cambiare.

