Addio a Riccardo Ceccarelli, il minatore buono con la Romagna nel cuore

Protagonista del libro “Il pallone e la miniera” e del docufilm “Terre Rouge”

Bisognava chiamarlo Riccardo, solo Riccardo, dandogli del tu. Giusto. Il lei crea una distanza artificiosa e Riccardo Ceccarelli era autentico, spontaneo, aveva trascorso la vita tra la gente semplice, tra i lavoratori come lui, nel fondo delle miniere dove si divide tutto, la fatica, il rischio, il cibo. Sorrideva con dolcezza bonaria quando raccontava di essere arrivato nell’immediato dopoguerra a Esch-sur-Alzette, nel sud lussemburghese delle acciaierie e delle miniere di ferro, e a un tratto – dopo essere sceso dal treno e avere camminato un po’ cercando la strada giusta per raggiungere la casa di alcuni parenti – s’era deciso a scaricare la tensione mettendosi a pisciare contro un muro; e precisamente in quell’istante una signora gli si era rivolto da una finestra: “Siete voi Riccardo?”. “Ostia!” sorrideva Riccardo raccontando quell’episodio, il primo della sua nuova vita di emigrante.

Nel 1950 – a 23 anni – aveva lasciato Novafeltria, l’Italia, la Romagna, per cercare un lavoro e sfuggire alla miseria; e nella terra delle miniere e degli emigranti aveva trovato una nuova patria, una famiglia, il futuro, dividendo ogni giorno di vita con Irma, una donna di una straordinaria simpatia, sua moglie, sua alleata, sua spalla in tutto. Protagonista di duetti teatrali, Irma si infilava nei silenzi di Riccardo dando l’impressione di sostenerlo sempre, anche quando lo prendeva in giro o insieme chiacchieravano del tempo passato, dei figli Remo, Carla e Ivana, delle difficoltà rese addirittura gioiose dalla solidarietà con cui avevano vissuto nella Hoehl, il quartiere popolare di italiani a un passo dalle fabbriche e dallo stadio della Jeunesse, la squadra di calcio degli operai. Riccardo aveva un viso malinconico e pareva triste anche quando sorrideva probabilmente perché s’era portato nel cuore la sua vecchia terra, perfino il dialetto romagnolo dal quale non si era mai separato. Stava bene e contemporaneamente stava male dove aveva ormai messo radici, il sentimento in cui si dibatte ancora il figlio Remo, cioè la persona – l’amico – che ha ispirato il libro “Il pallone e la miniera” e dunque il docufilm “Terre Rouge”, al quale ho lavorato insieme al regista Gigi Mezzacappa. In entrambi, il libro e il docufilm, Riccardo è uno dei protagonisti: con Irma, Remo, i calciatori e gli operai, le discriminazioni, l’integrazione, le persecuzioni del nazismo, il ruolo civile degli emigranti.

Oggi vogliamo ricordarlo – e lo faccio insieme al mio amico Gigi Mezzacappa – perché Riccardo, 92 anni, se n’è andato lassù dove un paio d’anni fa era volata Irma. Possiamo solo dirgli “ciao”, dandogli del tu; e dedicandogli, di seguito, “Terre Rouge” e “Il ritorno dell’Airone”, un capitolo del libro “Il pallone e la miniera”.

Ciao Riccardo, e grazie.


Il ritorno dell’Airone

Una mattina Riccardo Ceccarelli entrò nel garage del figlio e scoprì una moto bellissima. Rossa. Una Moto Guzzi Airone 250. «La mia moto!» esclamò. Era incredulo perché nel 1968 l’aveva venduta all’amico del Caffè Riganelli e trentaquattro anni dopo se la ritrovava nel garage di Remo, nuova, lucida, splendida. Era sorpreso come il primo indimenticabile giorno trascorso a Esch, quando, sceso dal treno, fuori dalla stazione ferroviaria gli avevano indicato la barriera e a un tratto la futura suocera, dalla finestra della Casa Grande, gli aveva chiesto: «Siete voi Riccardo?».

Ecco, come al suo arrivo nella terra delle miniere, Riccardo si ritrovava stupefatto davanti alla Moto Guzzi Airone 250 rossa, senza sapere come fosse arrivata lì, e domandandosi come potesse trovarsi davanti a lui dopo tanto tempo. «Oh, Riccardo, l’è la nòsta moto» esclamò Irma. Aveva un’espressione birbona, recitò da grande attrice. «Boia d’un giuda» aggiunse Riccardo.

Per comprare una Guzzi Airone e la casa ai genitori, Riccardo Ceccarelli era arrivato in Lussemburgo spinto verso un’emigrazione coatta imposta dalle difficili condizioni di vita in Romagna, sicché dopo qualche mese di lavoro stagionale in un’azienda edile, era riuscito a trovare occupazione nella miniera di Montrouge ad Audun-le-Tiche e imparato a stare disinvoltamente duecento metri sotto terra. A una temperatura sempre costante, più o meno quattordici gradi sia in estate sia in inverno, Riccardo gonfiava i muscoli per caricare a mano le pietre di minette sui vagoncini, «ben più dei sette vagoncini al giorno previsti dal contratto». Sgobbava con colleghi polacchi e italiani, ma non gli pesava perché «i contadini come me, là sotto, avevano tutto da imparare». Dovevano imparare soprattutto a difendere la pelle, e lui la salvò fino alla fine, rischiandola soltanto quando fu investito da un getto di acqua bollente sul volto. Andò bene, per qualche giorno rimase in ospedale con il volto bendato e gli occhi chiusi, poi riprese la vita di sempre.

Sarebbe arrivato il tempo in cui l’avrebbero promosso minatore, cioè addetto alle esplosioni, provvisto di un brevetto che gli attribuiva la competenza di fare sbriciolare le pareti di minette con una, due, anche otto cariche al giorno, ma prima gli capitò di assistere alla morte di un vecchio compagno di lavoro, ebbe un infarto e «morì tra le mie braccia».

Irma e Riccardo Ceccarelli

Era passata una vita e ora, nel 2006, nel garage del figlio, Riccardo fissava l’Airone. La moglie Irma sorrideva, e anche i nipotini guardavano il nonno; sapevano tutto. Riccardo tirò su la leva dell’aria, agguantò la leva della frizione, mise in folle e diede un colpo al pedale della messa in moto; poi ne diede un secondo e sentì il vruuuum, il rombo della Guzzi, la sua moto. Remo ci aveva impiegato mesi per trovare un’altra Guzzi Airone 250 identica a quella trasformata in un tosaerba. L’aveva cacciata a lungo indagando sulla vecchia motocicletta del babbo affinché potesse trovarne un’altra simile, e la trovò a Parma, dove investì 6.500 dei 15.000 euro della liquidazione consegnatagli dall’istituto di credito italiano che l’aveva messo alla porta. La banca l’aveva licenziato, potendogli togliere l’impiego, non la testa matta.

Riportando a casa la Guzzi, Remo aveva simbolicamente spostato il calendario all’indietro, riposizionandolo agli anni Cinquanta e Sessanta, i tempi d’oro della minette e della Hoehl, regalando al babbo e a se stesso la sensazione di avere ancora in pugno qualcosa del passato. Non più le fabbriche, chiuse o ridotte a rottami di archeologia industriale; non più le strade pullulanti di bambini, di uomini e donne sorridenti, portati via dal declino della civiltà siderurgico-mineraria; non più gli italiani, ridotti a una minoranza ormai diluita in una maggioranza portoghese, né la vecchia squadra di calcio operaia, la Jeunesse, rimasta esattamente dov’era, nello Stade de la Frontière, con la stessa maglia bianconera, ma senza gli operai.

Da Il pallone e la miniera, Tonio Attino (Kurumuny)

Terre Rouge

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