Informazione digitale: l’algoritmo sceglie le notizie (e pure i giornalisti)

Quale sarà il futuro dell’informazione? Russel Smith, giornalista e scrittore canadese, ha raccontato a settembre scorso la sua storia sul magazine The Walrus sotto il titolo “Come gli algoritmi stanno cambiando ciò che leggiamo online”. L’italiano Internazionale ha ripubblicato il suo articolo nel numero del 16/22 ottobre titolandolo con un efficace “Licenziato dall’algoritmo”. Ecco la bella testimonianza di Smith. In coda potrete trovare il link della versione originale del suo pezzo.

di RUSSELL SMITH

Lo scorso novembre, dopo quasi vent’anni, ho smesso di scrivere la mia rubrica sul popolare quotidiano canadese Globe and Mail. Non se n’è accorto nessuno. Neanche i miei lettori si sono fatti sentire. Ho ricevuto solo un messaggio cordiale dal mio caporedattore: diceva che era dispiaciuto che le cose non fossero andate per il meglio e sperava che restassimo in contatto. Nella sua nota non c’era l’impressione che quel momento fosse emblematico. Sapevo che quello che facevo non era più importante, né per la cultura nazionale né per i profitti del giornale. 

Onestamente, i miei pezzi trattavano di argomenti che i giornali in genere evitano. Per scelta non mi dilungavo mai troppo su grandi questioni etiche di etnia e di genere. Non mi sono occupato, per esempio, della denuncia ai danni di Roman Polański per stupro di minore. Ho cercato d’indirizzare i lettori verso argomenti di cui non si parlava sulle prime pagine degli altri giornali. Mi sono soffermato sul linguaggio che usa Al Jazeera quando parla di religione. Ho definito la musica pop la forma d’arte più conservatrice in circolazione. Ero convinto che i cliché creativi avessero una loro imprevedibile valenza politica, e che per il nostro panorama intellettuale fossero altrettanto importanti delle opinioni degli esperti, di cui sono pieni i quotidiani di destra e di sinistra. Quando Alice Walker ha pubblicato una poesia antisemita non ho parlato di antisemitismo, ma ho analizzato le analogie – tipiche di buona parte della poesia contemporanea – con i thread di Twitter. 

Per un po’ ha funzionato. Mi invitavano ai telegiornali. Mi chiamavano ai convegni per parlare di musica e di editing. Mi sono fatto anche dei nemici. Una volta ho definito “anti-intellettuale” lo spirito della scuola e decine di studenti della Queen’s university hanno protestato, per lettera o in video. A quanto pare provocare risposte indignate era il mio forte. La scrittrice Rebecca Rosenblum una volta ha suggerito che l’obiettivo della mia rubrica era “scatenare risse”.

Qualche anno fa, però, ho cominciato a preoccuparmi del calo del numero dei miei lettori. Incontravo persone di mezza età alle feste e mi dicevano: “Mi dispiace non leggerti più sul Globe!”. Io rispondevo: “Ci sono ancora, ogni settimana, nella pagina culturale”. E loro: “Ah… io leggo il giornale sul telefono e sull’app la tua rubrica non c’è”. Mia madre, che vive a Halifax, nel 2017 ha smesso di leggermi perché il Globe non inviava più l’edizione cartacea nelle province atlantiche. Insegnavo scrittura all’università e ormai mi ero rassegnato al fatto che gli studenti non sapevano neanche che scrivessi per un quotidiano. Non leggevano quasi mai nessun giornale. 

Le notizie scomparse

Incontravo persone di mezza età alle feste e mi dicevano: “Mi dispiace non leggerti più sul Globe!”. Io rispondevo: “Ci sono ancora, ogni settimana, nella pagina culturale”. E loro: “Ah… io leggo il giornale sul telefono e sull’app la tua rubrica non c’è”

La sensazione d’irrilevanza è diventata palese quando i miei caporedattori hanno cominciato a chiedermi di parlare di temi sempre meno interessanti (almeno per me) che però secondo loro mi avrebbero aiutato a restare sulla cresta dell’onda: argomenti d’intesse generale e cultura popolare. Questa richiesta, temo, proveniva dall’enorme grafico elettronico che oggi si trova in quasi tutte le redazioni e che misura in tempo reale i pezzi che suscitano più interesse nei lettori. 

Oggi considero la mia carriera ventennale un’allegoria di come l’era digitale, e in particolare le sue onnipresenti “metriche”, ha cambiato ciò che leggiamo. Quando scrivevo volevo aprire le porte di un club privato. A un certo punto, ho capito che non ci voleva entrare più nessuno.

Ho cominciato a tenere la mia rubrica nel 1999, quando era ancora concepibile che qualcosa di così sfacciatamente colto e intellettuale potesse finire su un giornale. In Canada era appena stato lanciato il National Post ed eravamo nel pieno di una guerra tra giornali. Il Post era irriverente e colorato. Il suo stile ricordava i giornali britannici, in cui l’arguzia è considerata importante quanto gli scoop e le inchieste. Aveva più illustrazioni. Le vignette erano più divertenti. Improvvisamente, il Globe and Mail sembrava diventato troppo serio. 

I proprietari risposero scegliendo un editore abituato alle trincee del mercato editoriale britannico. Quest’ultimo, a sua volta, portò un direttore britannico, Richard Addis, che all’epoca aveva 43 anni e il fascino affabile dell’ex studente di scuola privata, e cominciò a reclutare autori quasi più per il loro prestigio che per le loro capacità giornalistiche. A pranzo, gli dissi che volevo dare alla mia rubrica un profilo internazionale e intellettuale. Gli spiegai che sarei stato il ponte tra il Canada suburbano e il paganesimo violento del black metal norvegese. Misi in chiaro  che non avrei toccato la cultura più diffusa: niente musica pop, niente vip, niente cinema di Hollywood. 

Mi fece un sorriso: avrei cominciato una settimana dopo. Di lì a poco arrivò anche Leah McLaren, che avrebbe raccontato la sua vita di giovane donna in città, una novità quasi assoluta in un giornale vecchio e maschile com’era allora il Globe. Poi si aggiunse Lynn Crosbie con la sua rubrica sulle celebrità e il suo stile elaborato e letterario, con cui paragonava Britney Spears alle eroine della mitologia classica. All’improvviso, i giornali canadesi erano diventati più sexy: meno sobri, meno incentrati sulla politica, meno canadesi.

La crisi economica del 2008 cambiò tutto. Le vendite in edicola precipitarono. I giornalisti freelance che scrivevano per i quotidiani cominciarono a temere che la crisi avrebbe travolto anche loro. Io non avevo né un contratto né garanzie; fatturavo 800 dollari a settimana. Il mio caporedattore di allora, Andrew Gorham, mi chiese di ridurre il mio compenso di 100 dollari a settimana. La rubrica mi prendeva una giornata di lavoro; il resto della settimana mi dedicavo ad altri lavori da freelance per pagare l’affitto. Era prendere o lasciare. Accettai.

Nel 2010 ci furono i primi tagli. Nel 2013 sessanta dipendenti del Globe negoziarono l’uscita dal giornale. Nel 2014 furono eliminati diciotto posti di lavoro, di cui nove in redazione. Nel 2016 l’editore disse che cercava quaranta dipendenti disposti a lasciare il giornale in cambio di una buonuscita. Nel 2019 è stato imposto un taglio di altri dieci milioni di dollari, con un ulteriore giro di buonuscite. Io, fortunatamente, continuavo a percepire un compenso regolare. Sono sopravvissuto a quattro direttori e a nove caporedattori.

Probabilmente era la mia nicchia a permettermi di sopravvivere. Al Globe and Mail, e in Canada in generale, non avevo molta concorrenza. Producevo una grande quantità di contenuti a costi bassissimi. Poi a un certo punto, verso il 2016, un nuovo caporedattore si è preoccupato sempre di più per le mie sorti. La mia ipotesi era che gli stessero facendo pressioni dall’alto, perché i miei numeri erano troppo bassi. A quel tempo era già arrivato Sophi, il software analitico del Globe. Sophi era in grado di calcolare in che percentuale un articolo veniva letto online, quante volte veniva condiviso e commentato e, cosa più importante, se il fatto che fosse a pagamento spingeva qualcuno ad abbonarsi.

Gli articoli che mostrano un basso livello di engagement, il coinvolgimento del lettore, vengono sacrificati per lasciare spazio ai pezzi con un livello più alto, in base ai criteri di misurazione e alla percentuale dei clic. Gorham mi ha spiegato come funziona: “Guardi le statistiche e dici: ‘Oh merda, questo va fortissimo, spingiamolo. Facciamolo uscire, condividiamolo su Facebook, mettiamolo in home page, mettiamolo sulla newsletter’”. Fare pubblicità a un pezzo è fondamentale. “Se non lo pompiamo, evapora subito”, dice Gorham. 

 In pratica, questo meccanismo fa sì che il pezzo meno letto diventi ancora meno letto. Crea quella che potremmo definire una polarizzazione della popolarità: pochi pezzi vengono portati in alto mentre gli altri vengono abbandonati a se stessi. Con la stampa questo non succedeva. Sfogliando le pagine era possibile trovare qualsiasi articolo. Sul telefono, invece, il lettore scorre quello che è stato selezionato per lui. E questa selezione, con ogni probabilità, è il riflesso di una spietata razionalizzazione dei valori e delle priorità editoriali. “Non si può fare tutto per tutti”, spiega Gorham. “Bisogna puntare al massimo. Non devi concentrarti sul singolo, non devi pensare in piccolo. Scegli un cavallo e punti tutto su quello”. Per il Globe and Mail, significava destinare più risorse a progetti importanti e di grande rilevanza sociale, come una lunghissima inchiesta di Robyn Doolittle sulle aggressioni sessuali rimaste impunite. Le mie riflessioni sull’attualità del Don Giovanni di Mozart nell’era del #MeToo non rientravano esattamente in questa definizione di “grande”. Ero ancora convinto, però, che un giornale potesse e dovesse occuparsi sia di aggressioni sessuali sia di arte. Se volevo continuare a scrivere, i miei numeri dovevano crescere. 

Gli articoli affondati

pochi pezzi vengono portati in alto mentre gli altri vengono abbandonati a se stessi. Con la stampa questo non succedeva. Sfogliando le pagine era possibile trovare qualsiasi articolo. Sul telefono, invece, il lettore scorre quello che è stato selezionato per lui. E questa selezione, con ogni probabilità, è il riflesso di una spietata razionalizzazione dei valori e delle priorità editoriali

Così, l’estate scorsa, sono andato diverse volte nel nuovo scintillante ufficio del Globe per parlare con il mio capo di quello che avrei potuto fare. È stato lì che ho visto com’è fatta una redazione moderna. Cinque o sei grandi schermi sono fissati alle pareti; ce ne sono due perfino nella zona caffè. Sono i display di Sophi, il supercervellone. Ogni schermo misura in tempo reale il livello di engagement degli articoli pubblicati in quel momento sul sito del giornale attraverso un grafico con delle linee in movimento. La linea più alta di solito è l’ultim’ora dal Canada. La seconda è quella degli editorialisti politici più provocatori. Chissà, pensavo, magari ci entreranno anche i miei lunghi pezzi sulla machine art ad Amburgo o sulla nuova lingua di internet.

Quell’idea dell’engagement, però, mi disturbava. Non c’entrava niente con quello che per me era il contatto con i lettori. Se le mie idee erano discusse nelle tesi di laurea, se facevo venire un infarto a un blogger, se davo fastidio al potente di turno dei piani alti della televisione di stato, quello, per me, era engagement. Era così che misuravo il mio impatto culturale. Sophi non pesa in modo diverso i lettori. Tutti i lettori sono uguali: un clic è un clic, non importa se viene dal mio mouse o da quello di Margaret Atwood. In altre parole, Sophi non è in grado di misurare l’engagement così come lo intendo io, nel suo significato novecentesco.

Il mio capo mi ha fatto una proposta: “Che ne dici di una rubrica settimanale sui libri?”. Ovviamente non c’erano soldi extra. Ci ho provato per qualche mese, ma ero troppo lento a leggere e non riuscivo a rispettare le scadenze. Lui allora ha ceduto e mi ha dato il permesso di occuparmi anche di vari temi del mondo dell’arte, purché canadese. Secondo Sophi, gli articoli che parlavano del Canada andavano meglio. Magari era vero, ma le cose che interessavano a me – l’influenza della tecnologia sull’arte o le vecchie scuole d’arte scomparse da tempo – avevano quasi sempre un respiro internazionale; non riuscivo a trovare abbastanza argomenti di questo tipo in Canada. La mia paura era che, dovendo occuparmi soltanto del mio paese, avrei finito per scrivere solo di quelle cose edificanti di cui parla sempre la tv pubblica: i candidati a un premio di “narrativa responsabile” o un’opera teatrale sulla lotta alla transfobia, non il fascino maleducato di un romanziere francese o di un festival del rumore e del sesso a Tokyo.

Proprio nella settimana in cui stavamo discutendo di queste cose nel mondo letterario è scoppiato uno scandalo internazionale: il premio Nobel per la letteratura è stato assegnato a Peter Handke, apologeta di Slobodan Milošević, cioè l’ex uomo forte della Serbia processato per genocidio durante la guerra nell’ex Jugoslavia. Sulle pagine e sui blog culturali di tutto il mondo la condanna è stata quasi unanime. Sarebbe stato un tema perfetto per la mia rubrica. Il mio capo, però, mi ha detto che non ce ne saremmo occupati. L’indignazione, evidentemente, non era abbastanza canadese per meritare un commento. È stato a quel punto che ho capito che per me non c’era più spazio.

Quasi tutti i grandi mezzi d’informazione canadesi condividono l’idea che su arte e cultura ci si deve concentrare su quello che succede a casa. Nessun giornale straniero, questo è il ragionamento, scrive di un’opera teatrale sulla transfobia che va in scena in Canada. E poi non ci s’informa più su un unico giornale. Oggi se voglio documentarmi su una controversia internazionale posso scegliere tra i grandi critici del New Yorker, del Guardian o tra centinaia di blog e podcast, tutti in streaming sul telefono, spesso gratis. In altre parole, il web trabocca di opinionisti. Quando la mia rubrica è diventata a pagamento, anche i miei amici sono passati ad altro.

Si potrebbe ribattere che, dato il facile accesso ai critici internazionali, un punto di vista canadese è ancora più vitale. Perché non ritagliarsi un ruolo tra i pochi commentatori dell’arte nostrana? Ebbene, il paradosso è proprio questo: gli artisti canadesi non sono isolazionisti. Aspirano anche loro a esibirsi a New York. Sono sempre pronti ad accettare una chiamata da Stoccolma o dalla Nuova Zelanda. Chiedete a una musicista canadese chi ha la più grande influenza su di lei, e probabilmente vi farà il nome di un collega statunitense o giapponese. L’idea che occuparsi solo di quello che succede all’interno dei nostri confini significhi occuparsi delle nostre arti mi sembra un po’ sciocca. Le nostre arti sono internazionali. Un giornale nazionale dev’essere anche internazionale, proprio come i nostri artisti.

Avevo capito già da un po’ che i miei coetanei non mi leggevano. È possibile che l’interesse della popolazione per tutto ciò che è intellettuale fosse diminuito, ma non credo. Internet ci ha mostrato che anche la sottocultura più strana o la nicchia più piccola possono avere un seguito. Le cose che leggo oggi sui social network sono più cerebrali che mai. I grandi giornali del mondo sembrano ancora voler partecipare ai dibattiti tra gli accademici e gli artisti underground.

Le tendenze

Mi preoccupa il fatto che le decisioni editoriali siano guidate dalle statistiche. i mezzi d’informazione prestano grande attenzione a ciò che genera traffico, se non lo facessero probabilmente fallirebbero. però gli algoritmi gestiscono i contenuti. non riflettono semplicemente le tendenze: contribuiscono a crearle.

Con questo non voglio dire che bisognerebbe preoccuparsi perché non scrivo più sui giornali. In fondo mi è andata bene. Mi preoccupa solo il fatto che le decisioni editoriali siano guidate dalle statistiche. Ormai tutti i mezzi d’informazione prestano grande attenzione a ciò che genera traffico, se non lo facessero probabilmente fallirebbero. Altra cosa, però, è affidare ai dati la gestione dei contenuti: gli algoritmi che ci dicono quali sono gli argomenti di tendenza non riflettono semplicemente le tendenze; contribuiscono a crearle. Scartando tutto quello che è vagamente oscuro o difficile, gli algoritmi ne certificano definitivamente l’insuccesso. Se a nessuno viene mai spiegato che la musica elettronica o l’architettura postmoderna sono argomenti importanti, è molto difficile che qualcuno li tratti come tali. Il ruolo del giornale come arbitro si sta perdendo. In poche parole, se i dati dicono che gli argomenti provinciali sono i più rilevanti, anche il giornale diventerà provinciale. Cercando di essere “più grandi”, si rischia di diventare più piccoli. 

No, non credo che i lettori non fossero più interessati. Gli hanno semplicemente detto di non essere interessati. Gli algoritmi avevano già deciso che le cose di cui scrivevo non erano all’ordine del giorno. E poi sempre gli algoritmi hanno certificato che non lo sarebbero mai state. Quando ho fatto il mio ultimo inchino, la stanza era già vuota. 

L’articolo pubblicato da The Walrus

HOW ALGORITHMS ARE CHANGING WHAT WE READ ONLINE

Lascia un commento