di TONIO ATTINO
Peter e Mys non avevano molto in comune, ma un paio di cose sì: il pugilato e le sconfitte. Peter combatté 300 incontri e ne perse 256, ottenendo soltanto 13 pareggi e 31 vittorie, l’ultima nel match finale della sua avventura sul ring. Riuscì addirittura a imporre lo strabiliante record di 88 sconfitte consecutive. Su Mys non ci sono dati statistici, ma si racconta che perse sempre – cioè tutti gli incontri della sua vita – fino alle Olimpiadi, dove invece conquistò a sorpresa il titolo, riscattandosi da un’esistenza di batoste. Aveva quarant’anni e il volto deforme per i colpi subiti. Peter ne aveva trentanove quando diede – e soprattutto prese – gli ultimi pugni. Ciascuno nel proprio tempo, Peter e Mys hanno simboleggiato la figura dei perdenti. In realtà non lo furono, almeno non lo furono come noi siamo abituati a considerarli.
È evidente che le due storie non siano comparabili per ragioni elementari. Più di 2300 anni dividono Peter Buckley, inglese, e Mys di Taranto, nato e vissuto nella Magna Grecia. Però un filo di tenacia e di speranza potrebbe tenerle insieme come una storia unica. La storia di un perdente che in verità non perse.

Buckley nasce a Birmingham il 9 marzo 1969. A quindici anni è già orfano di padre. Il pugilato gli evita di diventare un criminale. Lui lo ammette. “La boxe mi ha salvato dal carcere”. Pugile professionista dal 1989, Peter ha una buona tecnica ma combatte per vivere più che per vincere. Non sceglie i suoi avversari, accetta tutto purché lo paghino. Così gli capita un giorno la telefonata del manager alle 11 del mattino. Peter è rincasato alle cinque ed è ancora a letto dopo una sbornia. C’è da combattere e lui ci sta. La sera è sul ring, a Nottingham. Perde. Nel 1990 riesce a vincere due match di fila. Poi, di fila, ne perde 29. Non dice mai di no. Combatte sempre, se qualcuno è disposto a pagarlo. Colleziona perfino cinque sconfitte in quattro settimane. La sua carriera ventennale, partita nei pesi superpiuma e conclusa nei welter, attraversa quattro generazioni di pugili.
Tutti lo chiamano the professor, il professore, perché contro di lui in tanti imparano come si combatte (e come si batte) un avversario. Troverà sulla sua strada diciotto futuri campioni del mondo. Perde con tutti, ma solo dieci volte su 256 viene battuto per Ko. Resiste perfino all’assalto dei medici che vorrebbero fermarne la carriera. Quando il British Boxing Board of Control, organo di controllo del pugilato nel Regno Unito, gli si mette alle calcagna, Peter Buckley dimostra di essere integro. Non molla mai. Si allena costantemente per tenersi pronto a una chiamata. Sale sul ring per l’ultima volta il 31 ottobre 2008. E’ a Birmingham, casa sua. Sconfigge ai punti Matin Mohammed che aveva tenuto a battesimo nei professionisti venti giorni prima, pareggiando.
Chiunque altro al suo posto sarebbe crollato. Chiunque meno uno. E qui facciamo un passo indietro di duemila anni. Mys, un ragazzone grande e forte, vive a Taranto, una città ricca, colta. Il fatto di essere nato in una famiglia aristocratica gli consente di praticare lo sport, privilegio garantito a chi non ha bisogno di lavorare. È una roccia, un lottatore. Il pugilato è la sua passione ma nonostante l’impegno Mys non ne imbrocca una. Infila un insuccesso dopo l’altro e con ogni probabilità è inseguito dalla derisione dei suoi concittadini. Non esistono ancora i classici guantoni imbottiti, Mys combatte con le mani avvolte nei caestus, guanti da combattimento fatti di cuoio e borchie di metallo. Non servono a proteggere, servono a ferire. Li usano anche gli avversari, purtroppo. Così, a mano a mano che combatte – e perde in ogni occasione con deprimente regolarità – Mys vede cambiare il suo aspetto. Affronta disastrosamente i giochi Pitici, i Nemei, gli Istmici, portando a casa i segni vistosi delle sconfitte, ma non si perde mai d’animo, finché nel 340 avanti Cristo partecipa ai giochi Olimpici. E qui avviene il miracolo. Mys vince. La tenacia con cui ha continuato a combattere e a resistere gli porta finalmente il titolo. E’ un eroe.
La sua figura verrà tramandata ai posteri grazie a una statua di bronzo che restituisce la sofferenza del campione arrivato tardivamente agli onori della gloria. La realizza verosimilmente Lisippo, il più grande scultore dell’antichità, o un artista della sua cerchia, mettendone in rilievo il volto massacrato dai pugni, il naso rotto, le cicatrici, le tumefazioni diffuse e in parte nascoste dalla barba, le orecchie gonfie e ormai incapaci di captare qualunque rumore. Mys, seduto, anzi sfinito dopo il combattimento, guarda di fianco, attende il verdetto, un cenno visivo che gli faccia intendere se questa volta ce l’ha fatta. Non può sentire che cosa gli sta intorno, e attende. L’ultimo massacro che gli porterà finalmente il trionfo diventa un simbolo della tenacia con cui l’uomo può raggiungere un risultato quando ormai pare impossibile. Il detto “fare come Mys a Olimpia” significa che mai nulla è perduto. Esposta nell’agorà di Taranto, la statua viene trafugata dai romani nel 272 avanti Cristo e ritrovata solo nel 1885 alle pendici del Quirinale, sotto uno strato di terra. La statua del pugilatore seduto (o del pugilatore a riposo), alta un metro e 28 centimetri, è ospitata oggi nel museo nazionale romano, a Palazzo Massimo, ma nel 2013 fu esposta nel Metropolitan Museum di New York. Mys di Taranto, l’eroe della sconfitta, celebrò così la forza della sua tenacia dedicandola a tutti i suoi eredi – e naturalmente a Peter il professore – che persero tutto, ma in realtà riuscirono a vincere anche loro.