Io non c’ero, ma la “cosa brutta” della Palazzina Laf ora è una lezione per noi ragazzi

Francesca Maggi, classe 5i del liceo artistico Calò di Taranto. Era accanto a me il 14 ottobre nella Biblioteca Acclavio di Taranto e mi ha aiutato con grande bravura a condurre la serata dedicata alla Palazzina Laf. Qui Francesca, diciotto anni non ancora compiuti, racconta cosa ha provato ascoltando i racconti di Alessio Coccioli, il magistrato che indagò su quel caso, di Claudio Virtù e di Giuseppe Palma, lavoratori esiliati nella Laf, della psichiatra Marisa Lieti, che li curò e denunciò pubblicamente, e del giornalista Carlo Vulpio. Una bella testimonianza. Grazie, Francesca. (t.a.)

di FRANCESCA MAGGI

Non conoscevo la storia della Palazzina Laf, non ne avevo mai sentito parlare né in famiglia né nelle mie “comunità immaginate”. Dunque ero convinta che anche per i miei coetanei non fosse che un fatto di cronaca come i tanti in cui è stata coinvolta l’ex Ilva. Insomma, quando la Palazzina fu chiusa era il 1998, ed io sono nata nel 2006.
Come poteva mai riguardarmi?
Quello della Palazzina Laf è il caso del reparto-confino dell’acciaieria ex Ilva dove 79 impiegati altamente qualificati, a seguito di ricatti o tentativi di demansionamento a operai, cioè a causa della teorica rimodulazione dell’assetto produttivo dell’azienda da parte della famiglia Riva, venivano confinati in uno stato di indeterminata non-produzione. Il caso è venuto alla luce nel 1997, portando con sé l’attenzione pubblica verso quello che era il primo caso di mobbing italiano. Solo con il film di Michele Riondino ho avuto l’opportunità di conoscere un segmento così tragico della storia della mia città, ed è stato con l’incontro di lunedì 14 ottobre, cioè andando “oltre il cinema”, che mi sono resa conto di quante persone siano ancora legate e interessate a questo avvenimento. Non parlo solo degli ospiti che hanno animato la serata, condividendo testimonianze e riflessioni: primi fra tutti il dottor Alessio Coccioli con la sua lucida ricostruzione dei fatti, la psichiatra Marisa Lieti, che ci ha dato modo di immaginare anche solo lontanamente i tragici risultati dell’alienazione sui confinati del reparto-lager, il giornalista e scrittore Carlo Vulpio, determinato ad indagare le vere cause della noncuranza politica e mediatica del caso. Mi sono chiesta: avrebbe avuto esiti diversi se non fosse avvenuto al sud? Poi Nico Pillinini, disegnatore e giornalista, che ci ha regalato una vignetta forte, di cui ogni tratto è fonte di riflessione.

No, non parlo solo di loro; la loro presenza brillante era pur sempre prevista. Mi riferisco allo sguardo dei miei amici, sinceramente interessati alla storia di Taranto e a quell’avvenimento talmente lontano per noi adolescenti da sembrarci quasi una libera invenzione di Riondino; allo sguardo curioso del mio compagno di classe Andrea Pulpito, fotografo di talento; ai miei docenti seduti dietro ai ragazzi, quasi come un’ombra di protezione e di guida, i quali invece sanno bene come il caso Palazzina Laf e le conseguenti accuse di mobbing e di bossing possano essere più attuali che mai.
Ma il vero cuore dell’incontro sono stati Claudio Virtù e Giuseppe Palma. Loro, presentati come “ex confinati”, io preferisco semplicemente descriverli come ex impiegati e vittime della più grande acciaieria d’Europa.

Il corridoio della Palazzina Laf

Osservavo sullo schermo del computer le diapositive che dovevo proiettare sul monitor, in particolare quella del grigio, freddo e anonimo corridoio che ha fatto da sfondo al segmento narrato dal professor Sergio Tersigni, ed intanto avevo alla mia sinistra due uomini che quello spazio lo hanno percorso chissà quante volte. Guardando il soffitto, pregando o mormorando, districandosi tra il loro tedio e quello altrui, cercando di scampare allo stato di alienazione. La foto mi sembrava surreale, come uno dei corridoi tipici delle riprese di Stanley Kubrick. Ascoltando poi le descrizioni della dottoressa Lieti la mia immagine è cambiata, e mi sono immaginata i 79 confinati come i prigionieri dell’opera La ronda dei carcerati di Vincent van Gogh. Colpa mia, ma in fondo c’è un motivo se frequento un liceo artistico.


Non conoscevo la storia della Palazzina Laf, ma dopo il film le opinioni che hanno cercato di darmi un quadro completo dei fatti mi hanno destabilizzata ancora di più. Perché, se chiedo a un professore, mi parla di uno dei più profondi casi di bossing della storia del meridione, mentre so che in passato, spesso, per molti operai della mia città quella era gente pagata per girarsi i pollici e aveva pure il coraggio di lamentarsi. Mi sono resa conto così di come Carlo Vulpio avesse ragione sul fatto che la sottoesposizione mediatica del caso avesse creato interpretazioni un po’ singolari.
Negli occhi degli ex impiegati ho visto la frustrazione di dover difendere i loro risultati, i loro titoli e le loro capacità, il desiderio di non sentirsi ultimi della catena di produzione, vittime peraltro, in molti casi, di conflitti familiari derivanti dalla loro condizione. Ho visto la desolazione di coloro a cui era stata data l’opportunità di metterci la faccia, di raccontare all’Italia intera lo strazio del non-lavoro forzato, e che si sono visti questa prospettiva svanire nel tempo di una puntata in tv. Parlo di una trasmissione che sarebbe dovuta andare in onda nel 2011, ma che nessuno ha mai visto. La foto illustrata dal professor Attino (una foto scattata nello studio della Rai), dal tono rossastro, le figure dei lavoratori, in piedi, nove, uno accanto all’altro, e Carlo Vulpio rivolto alla camera, mi ha particolarmente colpita, così come il “pre” e il “post”, cioè il dietro le quinte di questa vicenda sconosciuta.


Riflettendo sul dibattito e sulla vignetta di Pillinini non ho potuto che pensare ad un’appendice della mia edizione di Se questo è un uomo, in cui veniva chiesto a Primo Levi se avesse mai incontrato i deportati con cui aveva condiviso la prigionia, e se vi avesse scoperto delle persone diverse rispetto alle anime alienate con cui era venuto in contatto. Così ho formulato la mia prima domanda, delle parecchie che hanno costellato la fase finale dell’incontro.
Mi sembra così ingiusto che a questi uomini, come Virtù e Palma, sia stata tolta la possibilità di raccontare, in televisione, come il lavoro non sempre nobiliti l’uomo.
Eppure il successo del film, così come l’affluenza all’incontro del 14 ottobre, pretesto per queste mie raccolte riflessioni, mi dà la speranza che questa “cosa brutta”, come la chiamava il procuratore Franco Sebastio, possa trovare finalmente l’importanza che merita nella storia dei casi di bossing in Italia, che da circoli culturali più underground possa trovare dei portavoce sempre più affermati anche grazie ai tarantini.
Facciamo ciò che dobbiamo, non perchè lo dobbiamo agli altri ma perchè lo dobbiamo a noi stessi.


La fotostoria della serata nelle immagini di Andrea Pulpito, studente della 5i del liceo artistico Calò di Taranto


2 pensieri su “Io non c’ero, ma la “cosa brutta” della Palazzina Laf ora è una lezione per noi ragazzi

    1. Caro Palma, credo che la tua sofferta testimonianza, così come quella di Claudio Virtù, sia stata una importante lezione per i giovani. La grande parte di loro non conosceva questa storia. Le riflessioni di Francesca Maggi ci fanno capire chiaramente che questo nostro incontro e le vostre parole sono state davvero preziose per il loro futuro. Sì cresce e ci si difende dai soprusi anzitutto con la conoscenza. Sì diventa grandi combattendo anche contro chi sta a guardare. Grazie di cuore.

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