Il grande esodo non si ferma. Siamo nati per partire? Il caso di Massimo Stragapede, diviso tra la sua città e la valigia: “Ora non sono né qui né altrove”

I giovani emigrano, la Puglia e Taranto si svuotano. Come un autore tarantino raccontava i suoi tormenti nel romanzo Restare, partire, pubblicato nel 2013. Ora vive in Germania: lavora nel settore siderurgico, come un tempo faceva a Taranto

I numeri spiegano tutto e non danno allegria: Taranto ha perso circa 42.000 abitanti in 44 anni, quasi mille all’anno. Dal 2014 al 2024 la Puglia ha perso 134.701 giovani tra i 15 e i 34 anni (-14,1%) e la provincia ionica 21.484 (-15,9%). La tendenza è questa. Siamo nati per partire? Anche Massimo Stragapede, tarantino, 57 anni, se n’è andato, 27 anni fa. Ha lavorato nella sua città fino al 1998 come ispettore di controllo qualità nel settore siderurgico: l’Ilva, per capirci. Si occupava dei controlli sui tubi di acciaio. Da allora ha continuato la sua professione all’estero. Appassionato di fotografia, giramondo curioso, ora vive e lavora in Germania. Il suo romanzo Restare, partire (Lupo Editore), uscito nel 2013, raccontava la storia di chi non sa dove stare. Massimo parla poco di se stesso e del tema del giorno: il centro siderurgico di Taranto. Potrebbe. Dovrebbe. Perché sa di siderurgia e di industria – temi attuali ormai da anni – viene dal mondo del lavoro e ha lo sguardo lungo. Però non vuole apparire come chi, ormai lontano, voglia impartire lezioni. Quando gli ho chiesto di scrivermi poche righe autobiografiche per accompagnare questo testo, lo ha fatto addirittura in terza persona. Mi sono permesso di metterle in prima. Eccole. “Come il protagonista del mio romanzo vivo costantemente sospeso sulla virgola tra il restare e il partire. Torno, ma poi decido di ripartire. Riparto, ma poi decido di tornare. E in questo ciclo senza soluzione di continuità, la vita passa. Tra un ciclo e l’altro continuo a interpretare il ruolo di ‘esule dell’acciaio’, esportando oltralpe le mie mansioni. Altrui tubi, altrui saldature, in un caleidoscopio di lingue e nazionalità. Con un crescente curriculum, viaggia di pari passo un crescente straniamento. Né tarantino, né cittadino del mondo. E il concetto di casa che non è più né qui né altrove”.
Questo è il prologo a un capitolo del suo libro che mi sembra significativo, addirittura istruttivo. Gli ho chiesto: lo pubblichiamo? Mi ha risposto: perché no? Il titolo del capitolo è Tu bi. (t. a.)

Massimo Stragapede

di MASSIMO STRAGAPEDE

Che dopo manco due ore che mi sono coricato è suonata la sveglia. E dopo un’altra ora già stavo controllando il cianfrino del tubo numero 4164.
Basta. Oggi me ne vado.
Magari vado a Bologna, che Davide mi aveva detto che cercavano tanti magazzinieri per i nuovi ipermercati. Che a Bologna magari ne capiscono di più di fotografia. Che se lo facevano lì il concorso, forse la mia foto la capivano meglio.
Sì, io di qui me ne vado.
Non ne posso più di questi tubi, del capoturno là sopra come una sentinella.
E non ne posso più di questa città.
Non ne posso più della birra Raffo, dei tubetti con le cozze, del cemento sulle spiagge, dei lucchetti sul ponte, della puzza di piscio in tutti i posti belli ma appartati, delle Smart che fanno i cazzi loro nel traffico, degli shampoo con l’acqua del bidondicino perché non c’è pressione nell’acquedotto, dei motorini che sfrecciano nel centro storico, del parcheggiatore abusivo che ti chiede “u’ café” e ti chiama capo, del collega che ti propone l’ennesimo biglietto di lotteria “a scopo benefico”, del tizio che alla posta non prende il numeretto, ti passa avanti e chiama per nome il funzionario, delle pasquette in fila al semaforo di Martina Franca e dei ferragosto in coda nell’ingorgo di Montedarena, delle mie zie che mi vogliono “vedere sistemato”, delle domande di circostanza “tutto a post’?” e delle risposte sempre uguali “…da mettere!” oppure “nu poco alla post’, nu poco alla banca!”.
Arriva il tubo, 4165. Ovalizzato. Va al taglio.
Via, voglio andar via. 
Non ne posso più dei telegiornali che nominano Taranto solo quando si parla d’inquinamento, del gesto all’atteggio di quando si chiude il cellulare a conchiglia, dei caroselli di auto strombazzanti sia che vinca Juve Inter o Milan, di sentir chiamare i bambini con nomi tipo Gionatan, Kevin, Noemi, Mascia, delle fontane spente perché manca l’acqua, delle ragazze sui pullman in piedi vicino al conducente perché sedersi dietro è pericoloso, dell’ex compagno di scuola che ti dice carissimo solo ora che fa il promotore finanziario, di Viale Jonio allagata dopo solo un’ora di pioggia, dell’appuntamento davanti alla Concattedrale, dell’ingorgo all’uscita delle scuole perché tutti i genitori vanno a prendere i figli in auto, delle barriere architettoniche che manco sappiamo cosa sono, figurati se le abbattiamo, dei giornalisti che si riempiono la bocca di sinergie, potenzialità retro-portuali, grande Salento…
Ecco il tubo, 4166. Lo controlliamo per bene. Ma è buono. Ok.

Tubificio dell’ex Ilva di Taranto


Via, me ne vado via.
Via dai cafoni che arrivano al cinema dopo che il film è abbondantemente iniziato e organizzano il post serata col cellulare fottendosene della pellicola e degli altri che la stanno guardando, dalla monnezza sul pianerottolo della signora di fronte, dal clacson usato come citofono anche alle due di notte, dalla notizia dell’ennesima persona cara che il tumore “se l’è portato via in venti giorni”, dalle signore che presidiano il posto per parcheggiare mentre il marito sta facendo il giro dell’isolato, dalle stelle di natale sui palazzi in costruzione lasciate accese tutto l’anno, dal 58 scacciamosche appiccicato nelle pescherie e nei panifici, dalle signore che innaffiano i gerani mentre passi, dai cartelli “ponteggi in allestimento” su cantieri vecchi di tre anni, da Padre Pio che ha soppiantato Gesù nei manifesti mortuari, da quelli che citano Fabio Volo come fosse Hemingway, dalle signore bene che si comprano la pelliccia anche se abbiamo solo quattro giorni di inverno all’anno, dalle riunioni condominiali sfociate in rissa perché c’è uno che non vuole mettere i soldi per l’antenna centralizzata, dalle inferriate alle finestre di primo piano, dalle vie di campagna diventate discariche di laterizi, dalla puzza di sansa che ci invade tutte le primavere.
Sì, me ne vado via.
Poi arriva il tubo 4167, che il sistema dice che è “da controllare interno”. Meno male che è un quarantotto pollici. Prendo la torcia e mi infilo dentro.
Arrivo al centro, non vedo difetti, ma mi torna in mente il tizio di stanotte.
“La fatìa è la cosa più imbortante”.
Un fruttivendolo, anzi, una specie di fruttivendolo, che mi ha fatto sentire piccolo piccolo, di fronte all’enorme consistenza delle sue ragioni.
Cerco ancora. No, niente difetti. Forse da controllare interno era riferito a me. Ed io mi controllo. Ma dall’interno mi vengono fuori solo immagini di Lei e del suo impegno civico di restare. Di me e del mio sghembo sogno di partire.
Insomma, va a finire che mi tocca restare e cercare di cambiare le cose pure a me?
Cerco ancora i difetti nel tubo, muovendomi con lo slittino, mentre penso a cosa potrei fare per cambiare le cose intorno a me.
Potrei spegnere la televisione a mia madre, per cominciare. E portarla a guardare il mare, ma non dall’incrocio di Via Umbria. E dire a mio padre che l’acqua sorgiva di Tramontone è tornata, che se vuole, una domenica lo porto in spiaggia con la mia auto, senza segnarmi il chilometraggio.
Esco dal tubo dall’altra parte e do l’ok. Tutt’apposto.
Potrei anche fare tante foto in campagna, con i prati in fiore di fine marzo e stamparle giganti sul muraglione, che così forse sembrerebbe meno brutto. O meglio, fotografare il mare visto dai balconi dei palazzi che ci sono sopra e stampare le foto per far vedere a tutti come potrebbe essere la città con tutta quella luce da nord.
E magari, mò che torna mio fratello gli chiedo come ci si sente a fare una missione di pace su una nave da guerra. Che magari qualche dubbio gli viene pure a lui.
E forse anche io dovrei smetterla di sognare Machu Picchu, che forse è come dice Miriam, che non esiste un Puerto Escondido e che se vado, poi non mi rimane altro che tornare. 
Tanto vale restare.
Arrivo al centro del bancale e mi viene in mente Cataldo. Istintivamente guardo verso l’alto. Nessuna rondine che va o che viene, nessun becco affamato di vita. 
Il nido è vuoto. La vita che c’era è volata altrove.
Click.
Partire.
Il tubo 4168, nel frattempo, arriva.

(da Restare, partire di Massimo Stragapede, Lupo Editore, 2013)

La foto sul titolo è stata realizzata con l’intelligenza artificiale

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