Da Emilio Colombo a Emilio Riva, splendori e miserie di una grande fabbrica

di TONIO ATTINO

Cresciuta con gli anabolizzanti della Partecipazioni statali e poggiata instabilmente per troppo tempo su un solo pilastro (l’industria dell’acciaio), Taranto sembra tornata in questi giorni a una domanda vecchia di qualche decennio: che cosa potrà reggere l’economia domani? Su questo stesso interrogativo la città andò a sbattere sul finire degli anni Cinquanta, quando la crisi dei cantieri navali e dell’Arsenale Militare, i due caposaldi dell’economia, costrinse la classe politica guidata dalla vecchia Dc a una lunga battaglia per raggiungere l’unico risultato che sembrava, allora, la svolta risolutiva: la costruzione del quarto centro siderurgico italiano con un grande investimento dello Stato. Oggi, al posto della crisi dei cantieri, c’è la crisi dell’acciaio, cioè dell’Ilva (l’ex Italsider), un’industria che ha 12.800 dipendenti e dal ’95 non è più nelle mani dello Stato che la creò, ma in quelle di un grande imprenditore: Emilio Riva. Così, dopo una parabola quarantennale, Taranto sembra tornata al punto di partenza e si chiede disorientata: e domani? 

Il grande fiume di fondi dello Stato che avrebbe dovuto fertilizzare Taranto evidentemente non ha fertilizzato abbastanza. L’apparato industriale non è certo quello di cinquant’anni fa, eppure oggi l’economia non sta in piedi senza la siderurgia come ieri non poteva reggersi senza la navalmeccanica e l’Arsenale Militare. Un passo indietro può aiutare a capire che cosa è accaduto (o non è accaduto) e quale gatta da pelare la classe politica attuale si ritrovi tra le mani in questi giorni. 

Emilio Colombo

Secondo le scelte di fine anni Cinquanta, lo Stato italiano, completando il piano della siderurgia di Stato che contava già sugli impianti di Bagnoli, Piombino e Cornigliano, avrebbe regalato a Taranto non soltanto un’azienda solida e ricca come l’Italsider, ma anche come sottolineò il ministro Emilio Colombo prima di dare l’annuncio ufficiale al sindaco Angelo Monfredi il 20 giugno 1959 un’industria di base capace di creare “un effetto moltiplicatore sull’economia meridionale”. Lo stanziamento iniziale fu di 400 miliardi di lire. 

Comincia così la storia di Taranto città industriale. Il primo pezzo dell’Italsider, il tubificio, viene inaugurato il 15 ottobre del 1961. Nel 1965 il centro siderurgico produce 5,2 milioni di tonnellate di ghisa e 7.5 milioni di tonnellate di acciaio. Alla costruzione dello stabilimento lavorano 15mila operai. Ma è solo l’inizio. Negli anni Settanta lo Stato investe altri 1238 miliardi di lire per “raddoppiare” gli impianti che trasformano l’Italsider in un gigante due volte più grande della città. I dipendenti dello stabilimento sono più di ventimila, trentamila contando le imprese dell’indotto impegnate prevalentemente nelle manutenzioni degli impianti, nelle pulizie, nelle forniture industriali. La capacità produttiva dell’Italsider è di 11 milioni di tonnellate di acciaio l’anno. La città cresce con una poderosa accelerazione. Ma tutto è legato all’acciaio: anche dal porto passano quasi esclusivamente prodotti siderurgici. 

Se l’effetto moltiplicatore auspicato da Colombo è questo, i risultati si vedono. Dal 1951 al 1973 il reddito pro-capite cresce a Taranto più che in qualunque altra parte del Mezzogiorno: è in positivo del 788,7 per cento contro il 579,4 di Foggia, il 574,4 di Lecce, il 573,1 di Bari e il 525,4 per cento di Brindisi. Il benessere di Taranto, città fra le più industrializzate d’Italia, è riconducibile solo all’acciaio.

L’alluvione di investimenti, come ogni alluvione, stravolge il territorio. In passato legata alla cantieristica e alla pesca, all’Arsenale Militare e alla base navale, Taranto si ritrova un gigantesco impianto industriale sul mare, accanto alle case del rione Tamburi. E’ gonfiata dagli anabolizzanti dello Stato. A fine Ottocento aveva 35mila abitanti, nel 1997 ne ha 210mila; decine di piccole aziende nascono e si sviluppano intorno all’industria dell’acciaio; imprenditori si arricchiscono velocemente, ma non reinvestono. Invece di utilizzare gli utili enormi garantiti dallo Stato e scommettere su nuovi prodotti, aprire nuovi mercati, cioè diversificare la loro attività, restano in grande parte parassitari. Dura finché durano le partecipazioni statali, che pagano non tanto per produrre acciaio, non tanto per produrne a prezzi competitivi, ma per creare posti di lavoro.

Alla fine degli anni Novanta, ultima fase della gestione pubblica della siderurgia, Giovanni Gambardella, amministratore delegato dell’Italsider ormai diventata Ilva, comincia a tagliare: l’indotto ne esce a pezzi, lo Stato riduce appalti e forniture, le aziende locali chiudono. Nel 1995 arriva la privatizzazione: entra in scena Emilio Riva, che acquista l’azienda vincendo la concorrenza di Luigi Lucchini. Oggi l’Ilva ha 12.800 dipendenti (di cui 5000 con contratti a termine), contro i trentamila degli anni Settanta. Il grande fiume di fondi pubblici che avrebbe dovuto fertilizzare Taranto è scomparso lasciandosi dietro, in gran parte, il deserto. Le piccole imprese sono troppo poche e troppo fragili per essere un’alternativa, nonostante alcune aziende siano state aiutate dai fondi della legge 181 per la reindustrializzazione dell’area di Taranto. Chi volesse creare una fabbrica avrebbe perfino difficoltà a reperire un capannone industriale. 

Emilio Riva

La vertenza-ambiente e la minaccia di Emilio Riva di ridimensionare l’azienda ha ora il pregio di risvegliare una città indolente costringendola, come 50 anni fa, a pensare al dopo-acciaio. Gli enti locali si appellano al governo: è giusto chiedere che lo Stato, dopo averla inondata di soldi, non consideri questa parte di Sud come una enclave che serve all’Italia (la siderurgia è un settore di interesse strategico per l’economia nazionale), ma è ancora un po’ diversa dall’Italia. Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, Taranto è, in Puglia, la città in cui si muore di più per patologie dovute all’inquinamento. I tumori sono l’11,6 per cento in più della media regionale, i tumori pleurici addirittura il 303,8 per cento. Un bambino che nasce a Taranto ha più probabilità di ammalarsi di un bambino di Perugia, Trento o Caltanissetta. Piaccia o no agli “industrialisti” a tutto campo, è del tutto legittimo considerarlo un problema. 

Perciò la classe politica e gli amministratori tarantini dovranno presentare se ne hanno i propri progetti, come fece la vecchia Democrazia cristiana negli anni Cinquanta, sostenuta da un fronte assai ampio. Insomma, disegnare il futuro, scegliere. La Dc fece bene, o forse sbagliò: non è più questo il punto. La vecchia classe dirigente tarantina indicò una strada all’economia. Qualcosa ovviamente è cambiato: oggi non c’è più uno Stato che possa intervenire con la forza dell’assistenzialismo e costruire un’altra Ilva pulita alternativa all’Ilva inquinante. C’è soltanto una città che dovrà programmare il suo futuro, senza avere la pretesa (fasulla) di farlo in tre mesi o in tre anni, ma il dovere di farlo (seriamente) in dieci o in venti: chiedendo allo Stato di non considerare Taranto una enclave, e mettendo sul tavolo qualche idea e un modello di sviluppo per il “dopo-acciaio”. Finora si vede in giro molta confusione. Preoccupati dai possibili licenziamenti, i sindacati difendono la siderurgia; il presidente della Provincia auspica un accordo con Riva; il sindaco di Taranto immagina un futuro senza l’Ilva mentre il suo vice, solo un anno fa, ipotizzava la nascita, intorno all’imprenditore Riva che ora vuole sbaraccare, il rafforzamento di un “indotto” ormai defunto. Il minimo che possa capitare, a un fronte così multicolore, è che nessuno capisca quale modello (se ce n’è uno) Taranto proponga. E che nessuno, a Roma, stia ad ascoltare.

Corriere del Mezzogiorno, 5 settembre 2002

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