Lo scontro tra Comune di Taranto e governo rischia di lasciare il centro siderurgico invasivo come sempre. Non si è ancora discusso di rimpicciolirlo restituendo aree alla città. Anche con i forni elettrici, l’area a caldo resterà dov’è, accanto al rione Tamburi
Oggi 12 agosto 2025 si terrà a Roma l’incontro finalizzato alla firma dell’accordo di programma per la decarbonizzazione dell’ex Ilva di Taranto, cioè per (l’ipotetico) riammodernamento del vecchio centro siderurgico in chiave green. Al tavolo, governo, enti locali, Regione Puglia. Il sindaco di Taranto, Piero Bitetti, ha annunciato che non ci sarà. Non firmerà l’accordo, come il sindaco di Statte e il presidente della Provincia. Salvo un nuovo rinvio (probabile), siamo al passaggio decisivo per il futuro dello stabilimento.
di TONIO ATTINO
Comunque vada a finire questa lunga storia del centro siderurgico di Taranto, l’ex Ilva, cioè il più antico e il più antiquato degli impianti industriali costruiti dallo Stato nel secondo dopoguerra, una cosa è certa: è finita un’epoca, è morto un modello. È strano che la politica non se ne sia accorta già una ventina di anni fa, ma la politica – quando va bene – ha i riflessi lenti. Così, in un declino a quanto pare inarrestabile, la parabola della grande fabbrica (ex Italsider, ex Ilva, ex ArcelorMittal, oggi Acciaierie d’Italia ) si appresta a vivere probabilmente la sua ultima puntata: potrebbe coincidere con la fine della storia, cioè la chiusura pura e semplice del mega impianto (se lo augurano gli ambientalisti), oppure con una prosecuzione ricca di incognite.
Il governo Meloni, che ha già provveduto ad approvare l’autorizzazione integrata ambientale (Aia), ovvero l’autorizzazione alla produzione per i prossimi dodici anni, adesso esige la firma dell’accordo di programma per legittimarla e aprire il capitolo fabbrica-green, con i forni elettrici al posto dei vecchi altiforni, alimentati dal minerale agglomerato, quindi dal coke, quindi dal carbone. Il Comune di Taranto, contrario all’approvazione dell’Aia, non intende firmare neanche l’accordo nei termini prospettati dal ministro delle imprese Adolfo Urso. E alla richiesta del governo, ovvero tre forni elettrici, quattro impianti per la produzione di preridotto (semilavorato che consente l’eliminazione del coke) e una nave rigassificatrice in rada che ne alimenti il funzionamento, contrappone tre forni elettrici da realizzare in cinque e non in otto o più anni, periodo in cui resterebbero transitoriamente in funzione tre altiforni tradizionali, quindi con l’uso del minerale, del coke, del carbone.
Le posizioni sono distanti e il sindaco Piero Bitetti, che sollecita una legge speciale per Taranto, sembra possibilista su un accordo, ma su basi diverse e più vantaggiose per la città rispetto alla proposta del governo, mentre una parte della sua maggioranza (gli ambientalisti) è per la linea della fermezza: gli impianti dell’area a caldo sono inquinanti e dannosi alla salute, perciò vanno chiusi. Punto. Il riassunto è un po’ stringato ma sostanzialmente questo è. Si sta insomma discutendo su come trasformare in qualcosa di sopportabile una fabbrica nata negli anni del gigantismo industriale – gli anni Sessanta – e concepita certo non in chiave anti-inquinamento. E’ un po’ complicato, questo è certo. In altre condizioni, cioè sostanzialmente in un altro territorio, il centro siderurgico sarebbe già finito da un pezzo, come è successo a Bagnoli nel 1990 e parzialmente a Genova, con la chiusura dell’area a caldo avvenuta nel 2005.
Invece Taranto, stupefacente enclave di questo Paese rivoluzionario soltanto a parole, ha seguito giorno per giorno una inchiesta giudiziaria per disastro ambientale esplosa tredici anni fa (nel 2012), conclusa con una sentenza di primo grado nel 2021 (26 condanne per 270 anni di carcere, poi annullate nel 2024 con il trasferimento del procedimento in altra sede, Potenza) e si è vista passare sotto il naso indagini epidemiologiche che hanno rilevato come la città soffra gravemente per gli effetti dell’inquinamento industriale. Dove si può trovare un luogo che in due occasioni (2019 e 2022) ha indotto la Corte europea per i diritti dell’uomo a condannare l’Italia per non avere tutelato i suoi cittadini? E dove si può trovare un luogo dell’occidente che si è guadagnato la definizione dell’Onu (2022) di “zona di sacrificio”? In più, nel 2024 la Corte europea di giustizia ha sancito, accogliendo il ricorso dell’associazione Genitori Tarantini, che l’attività industriale dell’Ilva va sospesa se ci sono pericoli per l’ambiente e la salute pubblica. Il Tribunale di Milano, interpellato dalla stessa associazione, dovrà ora pronunciarsi. Ecco, in nessuna altra parte tutto questo avrebbe prodotto zero effetti pratici. Ma la particolarità della storia è proprio questa: è successo tutto, non è successo niente.

Il ministro Adolfo Urso ha presentato un piano che prevede la prosecuzione dell’attività (l’Aia c’è già) e ha prospettato, con la graduale chiusura dell’area a caldo, la realizzazione dell’impianto siderurgico più ecocompatibile d’Europa. Negli anni Settanta, nel Novecento, l’Ilva divenne il più grande stabilimento siderurgico d’Europa a ciclo integrale. La prospettiva è che ora diventi il più green. Non c’è dubbio che Taranto sia in qualche modo la città dei record. Alla luce delle argomentazioni adoperate in questi mesi, qualche record dovrebbe esserci ancora. Per esempio, anche se venisse chiusa, l’ex Ilva sarebbe la più grande fabbrica abbandonata d’Europa e con un’Aia valida per dodici anni. Perciò, salvo l’accoglimento di un ricorso dinanzi alla giustizia amministrativa contro il provvedimento (il fronte ambientalista si sta già preparando a presentarlo), l’Aia, restando in vigore, finirebbe per impedire anche eventuali bonifiche. Perché la fabbrica sarebbe considerata formalmente come ancora in attività. Poi ci sono ottomila metalmeccanici (più i lavoratori dell’indotto) che attendono di capire che fine faranno.
La cosa abbastanza singolare è che, se passasse il piano del governo o un compromesso tra le parti ne mitigasse la portata, i forni elettrici verrebbero localizzati nella stessa area a caldo di oggi, sostituendo via via gli altiforni tradizionali. Si riprodurrebbe cioè una nuova area produttiva a caldo (senza le cokerie) a ridosso dell’abitato del quartiere Tamburi, storicamente l’area più sofferente di Taranto per via dell’inquinamento. E anche i forni elettrici inquinano: meno, ma inquinano. Nel 2022 il piano presentato dal presidente di Acciaierie d’Italia, Franco Bernabè, prevedeva invece la realizzazione di due forni elettrici e due impianti per la produzione di preridotto ma in un’area diversa, a ovest di Punta Rondinella, sul lato mare della fabbrica, più lontano dall’abitato. Quel piano, per via dei ricorsi sull’ aggiudicazione della gara, già espletata, si è arenato. Diciamo che quest’ultimo passaggio con il governo Meloni ha cambiato le cose, probabilmente in peggio. Perché, oltretutto, se Ilva dovesse restare in vita, pregiudicherebbe il recupero delle aree contigue alla città. Ma di questo in realtà non si è mai discusso.

Gli oltre quindici chilometri quadrati su cui si estende il centro siderurgico – l’ex Ilva attraversa il territorio di due comuni, Taranto e Statte – sono una enormità che non ha pari nel mondo occidentale. Sarebbero un bel problema da gestire se la fabbrica dovesse chiudere, con i suoi impianti obsoleti e il concentrato di inquinamento accumulato in sessant’anni di produzione. Ma lo sarebbe anche se continuasse a produrre. Non si comprende perché una fabbrica la cui produzione ha superato in passato i dieci milioni di tonnellate di acciaio l’anno ed è destinata a produrne non più di sei debba avere una estensione così straordinariamente grande. Eppure non si è mai posto il problema di rimpicciolirla, di ridisegnarne il layout, in modo da recuperare e bonificare aree (l’attuale area a caldo, per esempio) allontanando il più possibile la produzione dalle persone. Ma la sfida sembra essersi ridotta a due soluzioni. Niente Ilva, sempre l’Ilva. Se non chiuderà, resterà quel gigante che abbiamo imparato a detestare.

