Se chiude altoforno 2 è più vicino il Big One di Taranto

L’altoforno 2 dello stabilimento ArcelorMittal di Taranto va chiuso. Lo ha deciso mercoledì 31 luglio il giudice del tribunale di Taranto Francesco Maccagnano rigettando l’istanza con cui Ilva in amministrazione straordinaria chiedeva la concessione della facoltà d’uso dell’impianto per adempiere alle prescrizioni del custode giudiziario Barbara Valenzano, imposte dopo l’inchiesta giudiziaria successiva alla morte dell’operaio Alessandro Morricella avvenuta nel giugno del 2015. Solo una parte di quelle prescrizioni sono state finora attuate. ArcelorMittal, cui è stato ceduto lo stabilimento di Taranto, non direttamente interessata al giudizio, ha predisposto le operazioni di spegnimento di Afo2, uno dei tre altiforni oggi in funzione nel centro siderurgico. Che cosa succederà adesso? L’ex Ilva di Taranto va verso la chiusura? Vi propongo uno stralcio di “Generazione Ilva”, libro uscito nel 2012, cioè nel periodo in cui scoppiò l’inchiesta giudiziaria che ha poi portato all’uscita della famiglia Riva dalla gestione delle acciaierie. Nel capitolo “Il Big One” si parlava appunto di questa possibilità. Sono passati sette anni, è entrato in scena il colosso mondiale ArcelorMittal ma pare sempre più vicino questo scenario.

di TONIO ATTINO

Siamo arrivati fin qui saltando da un’illusione all’altra e ora molti di noi pensano a un futuro sempre uguale al passato. La grande fabbrica seguiterà a garantirci il futuro, a darci lavoro, soldi, stipendi, sicurezza e perciò bisogna impegnarsi a salvarla, considerarla la prospettiva della nostra economia, teorizzare una compatibilità non raggiunta in mezzo secolo e altrove considerata irraggiungibile. Cominciassimo a guardare un po’ oltre le nostre scarpe capiremmo quanto tutto questo sia improbabile. Possiamo immaginare, dopo cinquantadue anni, di viverne così altri cinquantadue? 

La vita è un ciclo, tutto finisce, anche le fabbriche. Dovremmo prepararci al Big One, alla terribile scossa, immaginare che arriverà per un motivo o l’altro. Quando, non sappiamo; perché, neppure. Ma tenerci pronti. A Bagnoli, la scossa è arrivata vent’anni fa e tutto è cambiato. Adagiato come lo scheletro di un dinosauro sullo stupendo litorale di Coroglio, il centro siderurgico è ormai un monumento alla storia industriale e da vent’anni sta lì silenzioso, immobile. 

……

A Bagnoli le ciminiere incrociavano i palazzi in un rapporto carnale, il metallo infuocato illuminava il cielo, poi un giorno arrivò il Big One, e finì tutto. Da vent’anni l’Italsider, la fabbrica che ha sfamato generazioni di napoletani, non c’è più. Dal 1992 Bagnoli non produce acciaio. 

Costruito agli inizi del Novecento, distrutto dai bombardamenti e ricostruito dopo la seconda guerra mondiale, lo stabilimento siderurgico fu spento per sempre allo scoccare degli 82 anni di attività, con i suoi due altiforni, le due colate continue, le ciminiere incollate alle case. Lo smontaggio degli impianti cominciò nel 1994. 

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Costruito nel 1905, lo stabilimento siderurgico, esteso pressappoco su 180 ettari – era grande più o meno un decimo di quello di Taranto – cominciò a marciare nel 1910 raggiungendo una produzione massima di due milioni di tonnellate, un quinto della produzione tarantina. L’Italsider ebbe il picco di personale con 8026 addetti nel 1976, ma il numero di operai precipitò a poco più di quota 3000 finché la congiuntura internazionale e le decisioni della Ceca, la commissione europea per il carbone e l’acciaio, portarono al declino irreversibile. I tagli salvarono l’Italsider di Taranto, ma condannarono Bagnoli. 

La decisione della fine fu sostanzialmente anticipata il 3 novembre del 1981 dal ministro delle partecipazioni statali, il socialista Gianni De Michelis. Arrivato a Bagnoli per incontrare gli operai e annunciare che gli altiforni chiudevano, De Michelis volle rassicurare sul fatto che l’Italsider continuava a vivere con le lavorazioni a freddo. Fu garantita la costruzione di un impianto di laminazione, sicché l’Italia finanziò l’installazione di un nuovo treno nastri. Gli operai celebrarono le parole di De Michelis inondandole di fischi. 

Bagnoli

Per due anni e mezzo l’Italsider venne riammodernato con una spesa di 1200 miliardi di lire. Lo Stato italiano chiuse lo stabilimento nel 1992

Per due anni e mezzo l’Italsider venne riammodernato con una spesa di 1200 miliardi di lire. Nell’89 si fermò l’area a caldo, rimase in funzione un laminatoio. Lo Stato italiano chiuse definitivamente lo stabilimento nel 1992, gli impianti vennero ceduti a gruppi industriali cinesi e indiani, fu smantellato e venduto per 23 miliardi di lire anche il treno nastri promesso da De Michelis, costruito nel 1985 e costato 800 miliardi. Se può servire a farsi un’idea su come vanno le cose del mondo, dieci anni dopo, nel 1995, l’industriale Emilio Riva avrebbe acquistato per 1649 miliardi di lire, l’intero centro siderurgico di Taranto: cinque altiforni, due tubifici, due accaierie e anche due treni nastri. 

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Quella storia è finita, archiviata, conclusa; e il ciclo vitale s’è chiuso pure a Sesto San Giovanni, la città-fabbrica lombarda incollata a Milano. Sesto ha 81mila abitanti e ne aveva diecimila in più grazie all’espansione industriale sviluppatasi intorno a un nucleo di industrie solide: Breda, Magneti Marelli, Ercole Marelli, Pirelli e soprattutto la società siderurgica Falck. «Negli anni ‘30 Sesto San Giovanni contava più operai che abitanti» ricorda Antonio Pizzinato, friulano, ex operaio e parlamentare, sottosegretario al lavoro dal 1996 al 1998 nel primo governo Prodi. Pizzinato vive a Sesto dal 1963 e ne guidò i metalmeccanici della Fiom per dodici anni – dal 1964 al 1975 – prima della scalata nazionale che lo portò alla segreteria generale della Cgil dal 1986 al 1988. A ottant’anni Pizzinato s’inorgoglisce ancora pensando alla storica Sesto San Giovanni della vecchia Falck e alla città-fabbrica. «C’era la Breda, costruiva locomotive, aveva cinque stabilimenti nel settore ferroviario, aeronautico, siderurgico ed elettromeccanico. Negli anni ‘40 Sesto San Giovanni contava cinquantamila lavoratori e quasi cinquantamila abitanti. Fino agli anni ‘80 i lavoratori si concentravano per l’ottanta per cento in quattro aziende: Falck, Breda, Ercole e Magneti Marelli. Di queste aziende non è rimasto praticamente più nulla. Oggi gli occupati di Sesto San Giovanni lavorano in aziende con meno di dieci dipendenti e non c’è alcuna attività che predomini. Prima i due terzi del territorio erano occupati da impianti industriali e i pendolari arrivavano a Sesto per lavorare. Ora gli abitanti di Sesto fanno il contrario, tutti i giorni. Un rovesciamento totale». 

Negli anni d’oro dell’industria Sesto San Giovanni crebbe fino a 92mila abitanti, concentrando nei quasi 12 chilometri quadrati di territorio una densità tecnologica che – dall’aeronautica alle locomotive, dalla meccanica all’acciaio – ne fece uno dei motori industriali della Lombardia. La prima colata delle «Acciaierie e ferriere lombarde Falck» data 1906, l’ultima è del 1996. Battesimo e morte in novanta anni esatti, otto in più di Bagnoli; e come per Bagnoli, gli stabilimenti Falck furono dismessi per la negativa congiuntura internazionale e gli accordi con la Ceca. Pizzinato ricorda tutto, alla virgola: «La Falck aveva cinque stabilimenti: Unione, Concordia, Vittoria, Vulcano e Centro ricerche, ma era anche a Bolzano, Sondrio, Brescia e Napoli. Non c’era il ciclo integrale di Taranto, ma a Sesto la forza lavoro raggiunse gli ottomila operai. Si lavorava 363 giorni l’anno». 

Il passato

Quella storia è finita, archiviata, conclusa; e il ciclo vitale s’è chiuso pure a Sesto San Giovanni, la città-fabbrica lombarda incollata a Milano

Quando sente parlare del dopo industria, di una città come Taranto sfibrata da mezzo secolo di invasione della siderurgia, Pizzinato si domanda se sia mai possibile ipotizzare la cancellazione delle industrie: «Ma possiamo davvero pensare che l’Italia del ventunesimo secolo non abbia più industrie?» 

È una domanda retorica, naturalmente, la risposta è no, non possiamo pensarlo. Ci sarà sempre chi costruirà divani e acciaio, tubi e computer, scarpe e elettrodomestici, ma non sappiamo dove questo avverrà, né se un’azienda nata un secolo o cinquant’anni fa in un posto vivrà sempre nello stesso posto per qualche altro secolo. 

Non è successo a Bagnoli né a Sesto San Giovanni, dove sulle ex aree Falck si giocherà il più grande progetto di bonifica e di recupero urbanistico d’Europa, inciampato nell’inchiesta per tangenti aperta dalla procura di Monza il 20 luglio del 2011, il «caso Penati». 

Non è successo neppure in Pennsilvanya. Pittsburgh, città di 310mila abitanti, produceva acciaio. Appestata dai fumi delle fabbriche siderurgiche, passata attraverso il traumatico declino della siderurgia, si è riconvertita completamente diventando la terra della ricerca, dell’università, delle tecnologie, tra le prime città al mondo per la qualità della vita dopo il declino della siderurgia. «Le città siderurgiche come Pittsburgh» scriveva il professor Nebbia nel 1989 «sono diventate famose per l’atmosfera fumosa e purulenta, una immagine che ha caratterizzato anche le zone siderurgiche italiane come Genova, Bagnoli, Taranto, Sesto San Giovanni». 

Ventidue anni dopo Bagnoli e Sesto hanno chiuso le loro industrie e aperto la riqualificazione urbanistica, Genova non ha più l’area a caldo, incompatibile con l’abitato del quartiere di Cornigliano dove studi scientifici rilevarono l’aumento della mortalità del 23 per cento tra gli uomini e del 53 per cento tra le donne. Taranto resta il centro siderurgico a ciclo integrale più grande del continente. L’acciaieria d’Italia ha importato le produzioni espulse da Cornigliano, dove nel 2001 la magistratura mise sotto sequestro l’area a caldo (la cokeria fu chiusa l’anno dopo, l’altoforno nel 2005) e dove già agli inizi degli anni Novanta si discuteva dell’impossibilità di tenerla accanto alle case. Ugo Signorini, un ex assessore democristiano candidato nel 1993 a sindaco di Genova, si domandava come potesse reggere la siderurgia, ospitata su 160 ettari, dentro il quartiere di Cornigliano e «con una media di 20 occupati per ettaro, un vero spreco, visto che il rapporto posti/spazio nell’industria è di 200 persone per ettaro». 

Gli impianti di Genova Cornigliano, di proprietà della famiglia Riva, sono stati riconvertiti e lavorano adesso i prodotti provenienti da Taranto, la città in cui resta concentrata la maggiore produzione italiana di acciaio e dove il rapporto tra ettari e lavoratori non è neppure pari a nove. Nove lavoratori per ciascun ettaro di fabbrica. 

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Pittsburgh, la vecchia, fumosa, inquinatissima Steel City è diventata intanto, secondo l’Economist, la città più vivibile d’America e Paul C. Wood, vicepresidente dell’Upmc (University of Pittsburgh Medical Center), nel 2009 ha spiegato così perché e come è avvenuta la grande mutazione: «Qui non si insegue la palla, ma cerchi di piazzarti dove pensi che la palla arriverà. Non si vive alla giornata, puntando sulla bolla del momento, ma si investe pensando alla prossima generazione e senza chiedere aiuti pubblici. Insomma la mentalità è ancora quella operaia, anche se non ci sono quasi più operai». 

Negli Stati Uniti

Pittsburgh, la vecchia, fumosa, inquinatissima Steel City è diventata la città più vivibile d’America

Sarà il clima, saranno le abitudini, ma qui, un po’ più sotto della linea gotica, da una vita aspettiamo che qualcuno ci regali una palla. La prima ci fu lanciata a fine Ottocento con l’Arsenale Militare, la seconda agli inizi degli anni Sessanta con la siderurgia statale, la terza sembra il porto, sviluppatosi intorno al molo polisettoriale, costruito per ospitare il traffico delle navi porta container. Per anni semplice appendice dell’Italsider-Ilva, che continua a gestire in concessione quattro banchine, doveva trasformarsi in uno scalo cruciale per l’Italia e l’Europa avendo il vantaggio teorico di essere vicino all’Oriente più di quanto non lo sia Rotterdam.

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Il futuro

Quando arriverà il Big One non capiremo perché. Non siamo preparati

Quando arriverà il Big One non capiremo perché. Non siamo preparati, non immaginiamo che una fabbrica possa chiudere o il suo proprietario possa decidere di cambiare le sue strategie o il mercato suggerirne di nuove. Lo Stato chiuse Bagnoli e un privato non potrebbe chiudere Taranto? Anche i teorici del libero mercato e della libertà di impresa non vengono sfiorati dal dubbio, o forse la potenza del sistema Ilva con la sua batteria di comunicatori e la sua rete di addetti alle relazioni esterne hanno soggiogato il pensiero di chiunque, e fatto dimenticare, se qualcuno le avesse ascoltate, le parole di un esperto, il manager giapponese Nakamura: «Un impianto a ciclo integrale, con buona manutenzione, può rimanere in esercizio anche per cinquant’anni di seguito. Quello di Taranto è il più recente di tutto il continente e potrà funzionare ancora per venti o trent’anni». Lo stabilimento siderurgico di Taranto ha cinquantadue anni. Nakamura scrisse quelle parole nel 1993, diciannove anni fa.

Noi non prendiamo in esame l’eventualità del dopo, non vediamo il crepuscolo di una storia, l’Ilva è infinita, immortale. Perciò davanti al Big One saremo disarmati. 

da Generazione Ilva, edizioni Besa, 2012

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