Palombella (Uilm): “No, Mittal non ci fa paura. Ma L’Ilva ha cinque anni di vita. Serve un’alternativa”

di TONIO ATTINO

«È molto probabile che Mittal prenda l’Ilva di Taranto. Non vedo altri industriali solidi all’orizzonte. Ma bisognerà pensare a un’alternativa. L’Ilva non reggerà. Ha cinque anni di vita. Cinque anni. Non credo che possa durare oltre. Dobbiamo prepararci».

Ex dipendente del centro siderurgico di Taranto e dal 2010 segretario generale nazionale Uilm – il sindacato dei metalmeccanici della Uil – Rocco Palombella ha 59 anni, due figli e una sensazione forte: la storia sta per finire. Per sette anni, dal 2003 al 2010, ha guidato la segreteria provinciale vivendo in fabbrica il passaggio dalla siderurgia pubblica alla privatizzazione, cioè la vendita dell’Ilva dall’Iri a Emilio Riva. «Nell’Ilva ho lavorato per 35 anni. Vi entrai a 18 anni. Area ghisa». Alle dichiarazioni di Antonio Armellini, ex ambasciatore italiano in India («Mittal? È un capitalista. Se compra l’Ilva i sindacati si preparino»), rilasciate domenica scorsa al Corriere del Mezzogiorno, Palombella risponde così: «Noi siamo pronti. Anche Riva era un osso duro. Il peggiore imprenditore mai visto. Ma l’Ilva è destinata alla chiusura. Non può durare».

Crede davvero che il gruppo indiano Mittal comprerà?

«Ha chiesto garanzie sul piano del commissario straordinario Bondi. Mittel ritiene che il piano industriale debba essere elaborato da chi acquisirà lo stabilimento».

In particolare, quali punti non piacciono?

«Mittal esige l’autosufficienza aziendale nella produzione del carbon coke. Significa conservare le cokerie, ristrutturarle, non utilizzando il ferro preridotto. D’altra parte, quella immaginata dal commissario Bondi è una scorciatoia. Dire chiudiamo le cokerie e usiamo il ferro preridotto è sbagliato. Io penso che si possano ristrutturare le cokerie rendendole non inquinanti. Chiudendole si può creare un problema produttivo. Infine, Mittal contesta una poco chiara situazione finanziaria e l’elevata esposizione debitoria, non compatibile con gli investimenti previsti. Mittal vuole sapere a chi verranno addebitate le perdite di questi anni».

In sostanza, si sta trattando su una bad company in cui far confluire le passività?

«Probabilmente l’idea è questa. L’esposizione nei confronti degli istituti previdenziali dovrebbe essere pari a un miliardo, maturata negli ultimi due anni e mezzo. La parte finanziaria è una questione molto delicata».

Poi c’è l’inchiesta giudiziaria sul disastro ambientale.

«Ecco, questo è un altro punto. Il possibile acquirente teme che, pure dopo
gli investimenti, la magistratura blocchi lo stabilimento. Ne abbiamo discusso con Federacciai. Ma pensiamo che, con gli adeguamenti prescritti dall’autorizzazione integrata ambientale, non ci saranno problemi. Il pericolo-magistratura sussisterebbe se non venissero realizzati gli interventi. Nessuno può, evidentemente, esigere modifiche normative. Esiste un quadro normativo italiano e comunitario da rispettare».

Quali le alleanze possibili di Mittal?

«Arvedi non ha consistenza economica per fare alleanze con il più grande produttore di acciaio del mondo. Il gruppo Marcegaglia è interessato, essendo un utilizzatore di coils, cioè di lamiere, un milione e mezzo di tonnellate l’anno. Poi c’è la stessa famiglia Riva, proprietaria dello stabilimento, che però non ha mai fatto alleanze, esattamente come non le ha mai fatte Mittal. Quindi la materia è complessa. Io vedo questo scenario: Mittal chiede di allearsi con Riva chiedendo la gestione con l’obiettivo di rilevare completamente l’Ilva di Taranto entro qualche anno. Ecco, mi pare verosimile. Però bisognerebbe mettere dei vincoli ferrei, facendo in modo che Mittal non prenda Ilva per acquisire le quote di acciaio e poi chiudere lo stabilimento».

Quali vincoli?

«Il governo dovrebbe chiedere almeno cinque anni di salvaguardia dello stabilimento e dei livelli occupazionali».

L’ambasciatore Armellini dice: se arriva Mittal, i sindacati si preparino.

«Quando è arrivato Riva, nel 1995, per un mese e mezzo non l’abbiamo fatto entrare in fabbrica. Fu una lotta durissima. Abbiamo lavorato con uno dei peggiori imprenditori mai incontrati. Non è vero che abbiamo subìto Riva. Si sono chiariti i ruoli. Con la Partecipazioni statali non si capivano i confini reali tra azione sindacale e azione del manager pubblico».

Ci sono stati iscritti al sindacato che ne sono usciti, contestandovi.

«È successo nella Fiom Cgil, uno scontro di potere e basta. Mai una rivendicazione ambientale».

Un sindacalista che risponde a una domanda prendendosela con un altro sindacato non dà l’idea di una grande compattezza in un momento così delicato.

«Certo, purtroppo è così, mi auguro che si possa avviare un’azione comune. Abbiamo bisogno di ricostruire, cambiando strada. Per esempio il referendum su Ilva sì, Ilva no, è stato sbagliato».

Se a un cittadino per la prima volta chiedono che cosa ne pensa di una acciaieria che gli hanno costruito sui piedi non è una cosa così strampalata.

«Invece sì. In quel referendum non si parlava di alternativa. Era un raggiro».

Vede una prospettiva a Taranto?

«No. Ma va creata, studiata. Bisogna pensare ad altro».

Davvero non crede a una lunga vita dell’Ilva?

«Assolutamente no. Ilva non regge alle condizioni territoriali. Poi questi processi sono inevitabili. È successo altrove. Superata questa crisi, bisognerà immaginare alter- native di sviluppo».

Per questo parlava di vincoli quinquennali da porre a Mittal?

«Certo. Il tempo per riprogettare qualcosa. L’Ilva non durerà più di cinque anni. Stabilimenti come quelli di Taranto si fanno in Sudafrica o in Cina dove c’è ormai la gran parte della produzione mondiale. A Taranto si resiste solo tenendo in piedi il ciclo integrale, ossia la produzione partendo dal minerale per ricavarne tubi e lamiere, e sviluppando la zincatura dei prodotti. Chiudere l’area a caldo significa tagliare una gamba alla fabbrica».

Che cosa si aspetta il suo sindacato, adesso?

«Se a giorni il commissario Bondi verrà riconfermato, anche con una proroga di pochi mesi, penso si andrà verso la cessione a Mittal. Se verrà sostituito, ci sarà un processo lungo e il nuovo commissario resterà per qualche anno».

Corriere del Mezzogiorno, 3 giugno 2014

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