Tobagi vide il declino durante il boom, già negli anni Settanta la capitale dell’acciaio era in crisi

Il 15 ottobre 1979 esce sul Corriere della Sera il reportage con il titolo Il “metalmezzadro” protagonista dell’economia sommersa al Sud. L’inviato Walter Tobagi descrive un sindacato potentissimo ma riesce a guardare oltre il presente dei trentamila lavoratori dell’Italsider di Taranto, l’azienda dello Stato che «assicura una discreta quota di benessere medio, ma non ha determinato quel decollo della regione che molti speravano quando si gettarono le fondamenta di questa cattedrale della siderurgia». E’ utile rileggere quella testimonianza, a oltre quarant’anni di distanza e adesso che lo Stato ha rimesso le mani nella siderurgia e nella ex Italsider, alleandosi in Acciaierie d’Italia con ArcelorMittal. Con l’obiettivo di sempre: tenere Taranto incatenata all’acciaio. Tobagi, l’anno successivo, il 28 maggio 1980, fu ucciso a Milano da un commando del gruppo terroristico di estrema sinistra Brigata 28 marzo.

A Taranto lo stabilimento Italsider ha creato migliaia di posti di lavoro trasformando il tessuto sociale. Eppure si intuisce che l’acciaio non è l’unico futuro possibile. Così nasce il metalmezzadro, cioè l’operaio che continua a coltivare la terra

Walter Tobagi

di WALTER TOBAGI

Il vero protagonista sommerso si chiama metalmezzadro. È metalmeccanico, lavora nello stabilimento Italsider grande due volte e mezzo la città. Abita nei paesi della provincia e trova il tempo per coltivare il pezzo di terra. Su trentamila stipendiati della più grande industria del Sud, almeno la metà appartiene alla categoria dei metalmezzadri. E sono loro che hanno reso «ricchi» comuni di antica miseria come Grottaglie, Manduria, Massafra, Mottola, Laterza, Venosa.

Taranto è la più prospera fra le città del Meridione: il reddito pro capite sfiora il milione e 300 mila lire, che grosso modo corrisponde alla media nazionale. Il metalmezzadro se la passa meglio. Dall’Italsider riceve circa sei milioni l’anno, dal lavoro in campagna ricava, in media, altri due milioni sotto forma di «autoconsumo» della verdura e dei polli che fa in cortile. Verso la piana di Metaponto, dove l’irrigazione è più facile e la terra rende meglio, ci sono dipendenti dell’Italsider che mandano avanti anche aziende di barbabietole. 

Nell’incredibile crogiuolo dell’Italia sommersa, il metalmezzadro è una figura emblematica. È figlio della prima riuscita industrializzazione del Sud, dei diritti sindacali conquistati in fabbrica, dei servizi sociali che garantiscono trasporti rapidi all’operaio pendolare. Ma documenta anche una tendenza nuova: il rapporto fra città e campagna, in certi casi, si va rovesciando a favore della campagna. Chi vive in città, anche a Taranto, sconta le conseguenze di affitti impossibili. E non per niente un delegato di fabbrica Italsider racconta: «Quando c’è da fare straordinari, si offrono gli operai di città che hanno più bisogno di soldi. Quelli che stanno in campagna pensano alla seconda attività». 

Fra tante assurde «cattedrali nel deserto» l’Italsider di Taranto finisce per sembrare un’impresa mo- dello. Piena di problemi, si capisce; ma almeno produce, non è malata di assenteismo; ed è riuscita a creare un sistema di rapporti sindacali che lascia largo spazio alle confederazioni. Al punto che la gente finisce per ritenere il sindacato uno dei potentati del sistema, come dimostra una ricerca del giovane sociologo Nino Aurora. E si può dar retta alla spiegazione del segretario dei metalmeccanici Uil, Aldo Pugliese, quando dice: «Nel Sud è considerato potente chi aiuta a trovare un posto di lavoro. Negli anni passati, non c’è dubbio, i dirigenti Italsider hanno spesso dato la preferenza ai nomi segnalati dai sindacati». 

Ma la potenza, la forza del sindacato, non è solo questa. Dei trentamila dell’Italsider, oltre il 70 per cento paga le quote d’iscrizione. Proprio a Taranto la Cisl sta costruendo un palazzo che servirà come centro-scuola per i sindacati del Meridione: tre miliardi di spesa verranno raccolti con una sottoscrizione in tutta Italia. Non solo: il sindacato gestisce, insieme con la direzione Italsider, il cosiddetto «salario sociale» che corrisponde all’un per cento del «monte-salari» pagato complessivamente dall’azienda. Sono miliardi, non bazzecole. 

I dirigenti sindacali impongono scelte nette: un anno spendono un miliardo per comprare trenta pullman e li regalano alla Regione perché organizzi il trasporto dei lavoratori casa-fabbrica. L’anno dopo contribuiscono alla costruzione di undici asili nido. Adesso studiano un intervento per far funzionare un ospedale che rischia di ammuffire. Opere concrete, meritorie. Realizzazioni che andrebbero scritte fra le pagine più gloriose del sindacalismo riformista, pronto a mettere in soffitta le teorie astratte per migliorare le condizioni di vita reale dei lavoratori. 

Ce n’è abbastanza per dire che questa è un’oasi fra tanti guasti del Sud. Neppure qui, per la verità, il sindacato riesce a vivere una stagione del tutto tranquilla. E non è la solita deformazione professionale, la sindrome del sindacalista che deve individuare sempre nuovi «terreni di lotta» per motivare il suo ruolo. Il malessere è più profondo: riguarda la «contraddizione – come dice il segretario della Camera del lavoro Gino Di Palma – tra l’enorme concentrazione industriale di Taranto e il vuoto che c’è attorno. Dieci anni fa, quando si realizzò il raddoppio della fabbrica, l’Italsider ingaggiò centinaia di imprese appaltatrici, che dettero lavoro a migliaia di edili. Era un’occupazione temporanea, e le conseguenze si scontano ancora. Cos’è successo? I sindacati hanno condotto un’estenuante vertenza per trasferire i lavoratori delle ditte appaltatrici (ridotte da 450 a 50) all’Italsider. Si è realizzato il primo caso di mobilità, con discreto successo. 

In compenso, cresce il numero dei giovani che non sanno dove sbattere – ammette il segretario della Cisl, Mimmo D’Andria, ex operaio Italsider. «La difesa dell’occupazione era una scelta obbligata. Ma così siamo diventati il sindacato degli occupati». E il rapporto con la città s’è allentato, molti giovani tendono a considerare il sindacalista, perfino il delegato di fabbrica, come un personaggio influente, di successo. 

A complicar le cose, s’aggiunge un’altra questione intricatissima: la cassa integrazione. Gli operai delle imprese appaltatrici, che non hanno trovato posto all’Italsider, fruiscono di un provvedimento speciale, approvato nel 1975 per tremila edili e un migliaio di metalmeccanici. Il caso più clamoroso riguarda gli edili: ce ne sono parecchi in cassa integrazione dal ’73. E in questi anni? Anche i sindacalisti allargano le braccia: «È un problema che non sai come prendere. La cassa integrazione era giusta, non si potevano buttare migliaia di famiglie sulla strada. E non si poteva pretendere nemmeno che questi lavoratori poi rifiutassero di fare qualche altro lavoro più o meno nero, solo perché ricevevano l’assegno della cassa integrazione». Si rendono conto tutti che, in questo modo, diventa sempre più difficile l’inserimento dei giovani nella produzione. Ma nessuno se la sente di uscire dallo schema: «La cassa integrazione è una conquista dei lavoratori, dobbiamo difenderla, soprattutto in una regione dove la disoccupazione è forte». Alle liste di collocamento, nella sola Taranto, gli iscritti sono quasi ottomila. A un concorso per bidelli, si sono presentati quasi duemila aspiranti. 

L’Italsider assicura una discreta quota di benessere medio, ma non ha determinato quel decollo della regione che molti speravano quando si gettarono le fondamenta di questa cattedrale della siderurgia. Le spiegazioni sono tante: mentre cresceva la fabbrica nuova, decadevano i cantieri navali e l’arsenale, che furono la prima base industriale della città. Parecchi accusano anche i dirigenti Italsider, arrivati come coloni bianchi: la fabbrica è rimasta un universo separato, i dirigenti sono andati a vivere sulle colline di Martina Franca, ville eleganti fra tennis e piscina. All’inizio si diceva: «I capi dell’Italsider eserciteranno il fascino che avevano gli ufficiali di marina». Invece l’integrazione non c’è stata. E il sindacato ha subito le conseguenze di una situazione rigida, dove il gioco delle parti è rimasto ben delineato, ognuno al suo posto. 

Si spiega così un’altra caratteristica di questo sindacalismo pugliese: lo spirito di gruppo, il forte senso di appartenenza, che domina nelle tre confederazioni. I cislini sono orgogliosi perché l’Italsider è l’unica grande fabbrica metalmeccanica dove abbiano la maggioranza dei delegati; e criticano la Cgil perché subisce troppo le pressioni dei partiti comunista e socialista. I cigiellini ribattono che la Cisl ha una visione subalterna alla logica industriale dell’impresa. Polemiche contenute, per adesso. Domani potrebbero inasprirsi se la politica costringesse il sindacato a scelte drastiche. 

Vista da quaggiù, l’autonomia del sindacato sembra indefinibile come un’araba fenice. E forse non potrebbe essere altrimenti: la disoccupazione costringe a cercare continue alleanze politiche, per ottenere nuove iniziative pubbliche che diano lavoro. Inevitabile, quindi, che il sindacato nuoti come un pesce nell’acqua della politica: fino a diventare, come s’è visto, uno dei centri di potere più influenti. 

dal Corriere della Sera, 15 ottobre 1979

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